Dallo scorso mese di luglio la “riforma Fornero” ha introdotto un nuovo rito per le controversie in materia di licenziamento assoggettate al “nuovo” articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In particolare, i commi 47 e ss. dell’art. 1 della L. 92/2012 hanno previsto un rito speciale accelerato per le controversie in materia di licenziamento “anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro”.



Il nuovo iter processuale prevede il ricorso al Tribunale competente entro centottanta giorni dall’impugnazione del licenziamento e la fissazione della prima udienza entro i trenta giorni successivi. A tale udienza il Giudice procede con gli atti istruttori che ritiene più opportuni, “omettendo ogni formalità non essenziale al contraddittorio” e successivamente decide con ordinanza immediatamente esecutiva. A questa prima fase sommaria seguono altri tre gradi di giudizio (opposizione/appello/cassazione) regolati da norme analoghe a quelle previste dal rito “tradizionale” del lavoro.



Al riguardo si è già evidenziato – anche su questa testata – che la previsione di quattro gradi di giudizio, che nei casi di licenziamento economico si cumulano al tentativo obbligatorio preventivo di conciliazione pure introdotto dalla riforma, non contribuisce certamente a risolvere il problema dei tempi processuali, creando un meccanismo “mastodontico” con il rischio di decisioni difformi da parte di quattro organi giudicanti chiamati a decidere sulla stessa materia.

Le nuove disposizioni stabiliscono che con il cosiddetto “rito Fornero” possono essere proposte solo domande di impugnativa di licenziamenti e domande “fondate sugli identici fatti costitutivi”. Sul punto si pone un problema interpretativo della norma con importanti implicazioni pratiche. Se la norma verrà interpretata nel senso che il “rito speciale” potrà essere attivato in alternativa al rito ordinario del lavoro si realizzerà, di fatto, un particolare rito speciale “accelerato” che le parti potranno decidere di utilizzare o meno focalizzando o meno la domanda sul solo licenziamento o su pretese comunque fondate sugli identici fatti costitutivi, analogamente a quanto accade per il ricorso per decreto ingiuntivo o per il ricorso ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori in materia di repressione della condotta antisindacale: in entrambi questi ultimi casi la parte può avvalersi o meno di tali “speciali” procedimenti sommari, a cui peraltro possono seguire i tre “ordinari” gradi di giudizio.



Ove, invece, la norma verrà interpretata nel senso che tutte le cause aventi come oggetto “anche” (o soltanto) i licenziamenti dovranno essere obbligatoriamente ed esclusivamente assoggettate al nuovo “rito speciale”, si produrrà la moltiplicazione dei processi e una irrazionale frammentazione dei contenziosi, quale che sia lo strumento giuridico che verrà utilizzato dalla giurisprudenza per “separare” le cause di “puro licenziamento” dalle altre.

Non si tratta di un problema solo speculativo, tenuto conto che attualmente la gran parte delle cause di impugnazione del licenziamento ha quale oggetto anche domande connesse (quali, ad esempio, mobbing, dequalificazione, condanna al pagamento di retribuzioni arretrate, ecc.): se fossero separate sul piano processuale tali domande, si duplicherebbero i giudizi basati sugli stessi presupposti (si pensi, per esempio, a una domanda di ricalcolo di Tfr che potrebbe giungere in Cassazione con il rito ordinario del lavoro ed essere poi nei fatti vanificata per effetto della successiva declaratoria di inefficacia del licenziamento accertata nel separato “rito speciale”, che determinerebbe la reintegrazione del lavoratore e con essa l’insussistenza di un diritto del medesimo al Tfr).

Su questo fondamentale snodo ermeneutico la giurisprudenza si è già espressa in modi tra loro diametralmente contrastanti. Da un lato, il Tribunale di Milano, con la recente ordinanza del 22/10/2012, ha dichiarato inammissibile un ricorso “ordinario” del lavoro nel quale erano state proposte domande concernenti sia l’impugnativa del licenziamento (e la tutela ai sensi dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori), sia domande diverse non fondate sugli stessi fatti, riguardanti in particolare differenze retributive arretrate. Il Tribunale ha ritenuto, infatti, che il ricorso contenente la domanda ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori. deve essere necessariamente proposto “con un particolare ed esclusivo ricorso”, con il quale non possono essere proposte domande diverse e ulteriori; con ciò allineandosi con le prime “linee guida processuali” impartite dalla sezione lavoro del Tribunale di Milano.

Al contrario, la sezione lavoro del Tribunale di Firenze ha diffuso lo scorso 17 ottobre le proprie indicazioni interpretative sulla legge 92/2012, prospettando il carattere facoltativo del cosiddetto “rito Fornero”. Secondo le citate “indicazioni”, condivise “alla unanimità” dalla sezione e a “cui si atterranno tutti i giudici del lavoro del Tribunale di Firenze”, spetta al ricorrente valutare se nel caso concreto sia più utile procedere con il nuovo rito ovvero se sia più confacente ai propri interessi agire con il rito “tradizionale” del lavoro. Secondo i giudici fiorentini, un’interpretazione diversa sarebbe illogica in quanto obbligherebbe il lavoratore che fosse intenzionato a proporre oltre alla domanda di illegittimità del licenziamento ulteriori richieste afferenti il rapporto di lavoro, a moltiplicare le cause.

Dinnanzi alla evidente equivocità del testo normativo, sembra molto più ragionevole l’interpretazione prospettata dal Tribunale fiorentino. Non solo perché la “esclusività dell’azione” di impugnazione del licenziamento con il “rito speciale” non è affatto prevista dalla “legge Fornero”; ma anche perché già in altri casi – sopra ricordati – la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile sia un’azione proposta con il rito speciale, sia un’azione proposta con il rito ordinario, come ha avuto modo di ricordare lo stesso documento redatto dal Tribunale di Firenze con riguardo al ricorso per repressione della condotta antisindacale. D’altra parte, come pure osservato dal citato documento, “sarebbe illogico obbligare la parte, che eventualmente abbia più istanze di tutela, a proporre più cause, moltiplicando i processi”.

Del resto, l’interpretazione prospettata dal Tribunale di Firenze è pienamente compatibile con il dato letterale della legge oltre a essere finalizzata a una sua funzionale e ragionevole applicazione, nel rispetto dei principi di economia processuale particolarmente pregnanti in questi tempi di spending review. Ed è bene ricordare che la giurisprudenza del lavoro è stata in passato capace di “creare” norme andando anche ben al di là di una mera attività propriamente interpretativa di leggi ambigue: si pensi, ad esempio, all’obbligo di motivazione del licenziamento entro il termine di sette giorni dalla richiesta del lavoratore, prescritto dall’art. 2 della L. 604 del 1966, che la giurisprudenza ha esteso praeter legem anche ai casi di trasferimento (a pena di inefficacia del trasferimento stesso).

C’è quindi da augurarsi che prevalga nella prassi un’interpretazione ragionevole della nuova normativa finalizzata a un adeguato e lineare accertamento dei diritti in materia di lavoro.