In pochi si sono accorti che il Governo, mentre dichiara di voler limitare il campo di applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in realtà sembra averlo allargato, e in maniera non irrilevante. Poco, infatti, si è sinora riflettuto sugli effetti che la riforma previdenziale introdotta dall’articolo 24 del decreto “salva-Italia” n. 201/2011, conv. legge n. 243/2011, realizza sul regime dei licenziamenti, e sul diverso trattamento che, al proposito, viene riservato ai lavoratori del settore privato, rispetto a quelli del settore pubblico.
Iniziamo dal settore privato. Qui dovrebbe valere la regola generale – della quale già riferivo in un mio precedente articolo – per la quale l’applicazione della tutela contro il licenziamento cessa di operare quando il lavoratore può acquisire la pensione di vecchiaia (nel caso delle donne del settore privato, che ancora vanno in pensione prima degli uomini, va fatto comunque riferimento all’età di pensionamento prevista per questi ultimi): quindi, se è vero che l’ultima riforma “penalizza” i lavoratori, perché eleva l’età pensionabile, è anche vero che, sul versante del rapporto, coloro che desiderano continuare a lavorare possono avvantaggiarsi di una più prolungata tutela del posto di lavoro. In concreto: all’elevazione dell’età pensionabile a 66 anni nel 2012, a 66 anni e 3 mesi nel 2013, nonché ai successivi innalzamenti, pure previsti dal legislatore, si accompagna un corrispondente allungamento del periodo di efficacia delle discipline di tutela contro il licenziamento.
Ma che cosa succede, quando si compie quell’età? Qui arriva la “sorpresa”. L’articolo 24, comma 4, del decreto n. 201, infatti, incentiva la scelta del lavoratore di ritardare ulteriormente l’accesso alla pensione sino all’età di 70 anni (o sino alla maggiore età che, in futuro, potrà essere introdotta, con l’applicazione del meccanismo di misurazione della speranza di vita di cui all’art. 12, d.l. n. 78/2010, conv. L. n. 122/2010). A tal fine, si prevede, in primo luogo, l’applicazione, in favore dei lavoratori che decidano in tal senso, di coefficienti di calcolo del trattamento più favorevoli.
Sin qui niente di male; anzi, la misura è giusta, visto che chi accede alla pensione più tardi, evidentemente, ne godrà per minor tempo. Contemporaneamente, però, si prevede che, per i lavoratori interessati, che pure hanno compiuto l’età pensionabile (e cioè i 66 o più anni di cui sopra), l’efficacia delle disposizioni di cui all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori “opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità” di 70 (o più) anni.
Qui è davvero improprio parlare di “flessibilità”. La norma, invero, in tal modo blocca la flessibilità in uscita dal rapporto, perché il datore di lavoro non è più libero – come era invece in passato – di licenziare il dipendente che potrebbe immediatamente godere della pensione di vecchiaia; e che quindi, qualora perdesse il posto di lavoro, non sarebbe comunque sprovvisto di reddito.
Si noti, peraltro, che, per come formulata, la norma è suscettibile di essere interpretata in maniera tale da essere estesa anche ai dipendenti dei datori di lavoro con meno di 15 dipendenti. La disposizione, infatti, sembra “copiare” l’art. 6, d.l. n. 248/2007, conv. l. n. 31/2008, che, per proteggere i pensionandi con il sistema retributivo, nei mesi che separavano la data di compimento dell’età pensionabile con l’apertura delle “finestre”, affermava che, in detto periodo, l’efficacia dell’articolo 18 era “prorogata”.
È evidente che “prorogare” significa continuare ad applicare qualcosa che già è operante. Ora, invece, si dice che detto articolo 18 semplicemente “opera” sino a 70 e più anni: quindi, è lecito ritenere che anche i lavoratori che, sino al compimento dell’età pensionabile, non potevano vedersi applicata la “tutela reale” contro i licenziamenti, dal compimento di quell’età sino ai 70 (e in futuro forse più) anni se la ritrovino, improvvisamente, attribuita. La legge, peraltro, non impone ai lavoratori alcun onere di comunicazione; e quindi sembra che gli stessi non debbano neppure curarsi di far sapere al datore di lavoro se, per i quattro anni o giù di lì che li separano dal suddetto “limite massimo di flessibilità”, hanno davvero intenzione di rimanere in servizio. Si crea, in tal modo, anche un’incertezza su quando il dipendente anziano intenda andare in pensione, che impedisce ai datori di lavoro anche un’efficace programmazione di un eventuale ricambio generazionale.
Il meccanismo, quindi, merita senz’altro di essere rivisto, bilanciando in maniera più equilibrata le aspirazioni del lavoratore anziano con le esigenze dell’impresa e dell’occupazione dei giovani. D’altronde, è anche il caso di rilevare che quelle aspirazioni interessano ben poco il legislatore, che ha calibrato la disciplina soprattutto per limitare la spesa pubblica. Tant’è che, nel settore del lavoro pubblico – e cioè nel settore nel quale la priorità è, prima di tutto, quella di “agevolare il processo di riduzione degli assetti organizzativi delle pubbliche amministrazioni” – non si incentiva affatto la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Per questo, l’effetto della riforma pensionistica sulle discipline della cessazione dei rapporti di lavoro pubblico, come vedremo nel prossimo articolo, è profondamente diverso da quello realizzato nel settore privato.
(1 – continua)