A prima vista, l’impatto che la riforma delle pensioni realizza sulle discipline del licenziamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni sembrerebbe assai simile a quello esaminato nel precedente articolo per il lavoro privato. La stessa circolare interpretativa 8 marzo 2012 n. 3 del Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri ricorda che, pur rimanendo formalmente confermato a 65 anni il limite previsto, in via generale (e salve le discipline dettate per categorie particolari, quali quelle dei magistrati, avvocati dello Stato, professori ordinari, Vigili del fuoco, militari, ecc.), “per la permanenza in servizio”, in concreto tale limite viene posticipato, come per il settore privato, sino al conseguimento del “requisito minimo per il diritto a pensione”.



La circolare non è chiarissima, ma non sembra di poter dubitare che, per applicare tale regola generale, si faccia riferimento al requisito minimo per la pensione di vecchiaia, che, quanto all’età, è fissato, come già detto, a 66 anni nel 2012, per poi aumentare a 66 anni e 3 mesi nel 2013, e così via. Insomma, per l’applicazione di tale regola si fa riferimento agli stessi limiti che (unitamente alla maturazione del requisito contributivo ventennale) anche nel settore privato fanno coincidere il mantenimento delle tutele contro i licenziamenti con la maturazione dei requisiti per la pensione di vecchiaia.



A questo punto, però, le discipline divergono. In primo luogo, ai pubblici dipendenti non è concessa la stabilità del posto sino a 70 anni, perché rimane fermo il principio, che da sempre regola il rapporto di lavoro pubblico, per il quale, una volta raggiunta l’età pensionabile, il lavoratore deve essere licenziato. C’è la possibilità per il dipendente pubblico che lo richieda, di protrarre il rapporto oltre tale limite, chiedendo il trattenimento in servizio, per un ulteriore biennio, come previsto dall’art. 16, d.lgs. n. 503/1992: la norma, da ultimo modificata dal d.l. n. 138/2011, conv. l. n. 148/2001, lascia, però, ampia discrezionalità all’Amministrazione, che può senz’altro (come è probabile che, nella maggior parte dei casi, di questi tempi, accada), rigettare la richiesta.



Sin qui, però le differenze tra pubblico e privato appaiono, in definitiva, giustificate, anche in ragione dell’oggettiva esigenza di eliminare le molte situazioni di esubero esistenti in seno alla Pubblica amministrazione. Tuttavia, va anche considerato che, in realtà, le discipline delle quali si discute consentono ormai all’Amministrazione di licenziare il lavoratore prima del compimento dell’età pensionabile.

Da questo punto di vista, ai lavoratori pubblici è riservato un trattamento ben diverso da quello dei lavoratori privati, in quanto l’Amministrazione può avvalersi della cosiddetta “risoluzione unilaterale” del rapporto: una misura che, introdotta dall’art. 72, d.l. n. 112 del 2008, conv. l. n. 133 del 2008, era prevista nei confronti dei dipendenti che, pur non avendo raggiunto l’età per il pensionamento di vecchiaia, avessero comunque maturato l’“anzianità massima contributiva” utile per il calcolo della pensione retributiva, e cioè i 40 anni di contribuzione. Si trattava, dunque, di una misura che non pregiudicava l’importo del trattamento, acquisibile da subito, sub specie di pensione di anzianità.

Con la riforma, che da quest’anno non consente più, salve poche eccezioni, di liquidare pensioni retributive, il concetto di “anzianità massima contributiva” non è più utilizzabile. Tuttavia, l’articolo 24, comma 20, del decreto n. 201 mantiene comunque, in capo all’Amministrazione, lo strumento previsto dall’articolo 72, disponendo che, per utilizzarlo, si “tiene conto della rideterminazione dei requisiti di accesso al pensionamento come disciplinata dal presente articolo”.

La norma (a prima lettura incomprensibile) in pratica consente alle Amministrazioni di licenziare i dipendenti prima del compimento dell’età pensionabile, se questi hanno i requisiti per la cosiddetta “pensione anticipata”: e cioè del trattamento che, ai sensi del comma 10 dello stesso art. 24, si può ottenere, nel 2012, con un’anzianità contributiva di 42 anni e 1 mese per gli uomini e di 41 anni e 1 mese per le donne (nel 2013 serviranno, invece, rispettivamente 42 anni e 5 mesi per gli uomini e di 41 anni e 5 mesi per le donne; nel 2014 si avrà un’ulteriore elevazione di un mese).

Sennonché, chi va in pensione anticipata subisce una doppia penalizzazione sul calcolo del trattamento. In primo luogo, lo stesso comma 10 dell’articolo 24 prevede una riduzione percentuale della quota di trattamento relativa alle anzianità contributive maturate sino al 2011, qualora l’età di pensionamento sia minore di 62 anni (la percentuale è pari all’1% per ogni anno di anticipo, che cresce al 2%, per gli anni ulteriori rispetto al secondo). Si può affermare che si tratta di una decurtazione limitata, e che, comunque, non verrà applicata a molti di coloro che matureranno l’anzianità contributiva entro il 2017 (art. 6, d.l. n. 216/2011, conv. l. n. 14 del 2012). Ma sicuramente a tutti e da subito si applicherà l’ulteriore (e, in prospettiva, più pesante) penalizzazione, derivante dall’applicazione del più sfavorevole coefficiente di calcolo della pensione, che, come noto, varia in ragione dell’età di accesso al trattamento.

Si può quindi affermare che, per i dipendenti pubblici, l’“impatto” delle nuove discipline pensionistiche in termini di protezione contro i licenziamenti è assai meno favorevole, rispetto a quello che si registra sul versante del lavoro privato. Se, per molti versi, tali differenze sono giustificate, desta non poche perplessità il fatto che i dipendenti pubblici “esodati” con la pensione anticipata subiscano la stessa penalizzazione che i lavoratori privati ricevono, in conseguenza di una propria libera scelta (dimissioni), ovvero all’esito di licenziamenti per giusta causa o per giustificato motivo: e cioè di provvedimenti imprenditoriali caratterizzati da una discrezionalità assai minore di quella, davvero ampia, con la quale le Amministrazioni possono disporre la “risoluzione unilaterale” ai sensi dell’art. 72, d.l. n. 112/2008.

L’introduzione di correttivi che, per tali casi, limitino il pregiudizio sul trattamento pensionistico, potrebbe costituire un valido (e, forse, non troppo costoso) correttivo, idoneo a conferire alla disciplina caratteristiche di maggiore equità.

 

(2 – fine)