Il disegno di legge sulla riforma del mercato del lavoro all’esame del Parlamento in questi giorni ha introdotto un “rito speciale per le controversie in materia di licenziamenti” sostitutivo delle norme processuali attualmente vigenti. Nella presentazione del documento il Governo ha dichiarato che si tratta di un rito sommario per quanto attiene alla forma, che tuttavia “prevede un’istruzione vera e propria sia pure con l’eliminazione delle formalità non essenziali all’instaurazione di un pieno contraddittorio”. 



L’iter del nuovo rito speciale prevede il ricorso al Tribunale del lavoro competente entro centottanta giorni dal licenziamento e la fissazione della prima udienza entro i trenta giorni successivi. A tale udienza il Giudice, “sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio”, procede con gli atti istruttori che ritiene più opportuni e successivamente decide con ordinanza immediatamente esecutiva. Contro tale ordinanza può essere proposta opposizione con ricorso entro trenta giorni. In tal caso, secondo una procedura simile a quella attualmente vigente nel processo del lavoro, il Giudice adito fissa entro i successivi sessanta giorni l’udienza di discussione con facoltà per l’opposto di costituirsi entro dieci giorni prima della predetta udienza.



A tale udienza il Giudice, “sentite (ancora una volta, ndr) le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio”, dispone gli atti istruttori che ritiene più opportuni e successivamente decide con sentenza. Avverso tale sentenza è ammesso un ulteriore “reclamo” avanti la Corte d’Appello entro trenta giorni; e contro la decisione della Corte d’Appello è ancora possibile presentare ricorso alla Corte di Cassazione entro i sessanta giorni successivi. Il giudizio di opposizione di primo grado e quello di appello sono regolati da norme analoghe a quelle attualmente previste in materia.



Il disegno di legge governativo ha quindi introdotto una sorta di “fase di urgenza” obbligatoria a cui seguono i tre “tradizionali” gradi di giudizio (le norme sul processo di primo grado e di appello per le cause di licenziamento sono state infatti lievemente “ritoccate” rispetto al rito tipico del lavoro). Ma i nuovi strumenti processuali non finiscono qui. Se infatti il licenziamento è motivato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” l’articolo 13 del disegno di legge ha anche introdotto a carico del datore di lavoro un tentativo obbligatorio di conciliazione da proporre prima del licenziamento avanti la Direzione territoriale del lavoro del luogo ove il lavoratore presta la sua opera.

Al riguardo va osservato che il tentativo di conciliazione obbligatorio era già stato introdotto per tutte le controversie di lavoro nel 1998 (D. Lgs. n. 80/98) ed era stato definitivamente abrogato con la L. 183/2010 in considerazione dei suoi effetti deludenti, che di fatto hanno aggravato gli adempimenti delle parti senza sortire alcun rilevante esito deflattivo dei processi.

Con questo “schema”, potrebbe diventare così abituale ciò che è accaduto nel celebre caso dei tre lavoratori licenziati per “boicottaggio” dalla Fiat presso lo stabilimento di Melfi: licenziati a luglio 2010 sono stati reintegrati di urgenza ad agosto del 2010 per poi essere nuovamente allontanati dalla Fiat a luglio 2011 (avendo l’azienda vinto il giudizio di merito di primo grado) ed essere nuovamente reintegrati a febbraio 2012 a seguito della vittoria ottenuta nel giudizio avanti la Corte di Appello di Potenza. E vedremo cosa succederà in Cassazione…

Con la riforma in oggetto non solo si ampliano notevolmente i poteri “di merito” del giudice, ma si crea un meccanismo mastodontico per lasciare in “balia della magistratura” una causa di licenziamento esposta a quattro gradi di giudizio che – in Italia e nel mondo – non sono neanche previsti per i casi di omicidio, che sono pur puniti con l’ergastolo (in molti paesi aderenti all’Ocse il processo penale si articola in due soli gradi di giudizio). Del resto, se gli uffici giudiziari sono già intasati e incapaci di gestire l’attuale contenzioso, non è certamente aumentando di un grado il processo che si va nella logica della semplificazione e della razionalizzazione, pur richiesta al nostro Paese dalla comunità internazionale, o della “prospettiva di crescita” pur contenuta nell’ambiziosa rubrica del disegno di legge governativo.

Anche perché l’articolo 1 del ddl prevede che “l’attuazione delle disposizioni del presente articolo non può comportare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, in quanto la stessa è effettuata con le risorse finanziarie, umane e strumentali previste a legislazione vigente” (detta in altri termini, non si prevede l’assunzione di nuovi magistrati e di personale di cancelleria). E non basta certo prescrivere (articolo 12) che “alla trattazione delle controversie” sui licenziamenti ”devono essere riservati particolari giorni nel calendario delle udienze” per risolvere magicamente il problema dei tempi processuali.

Ma i problemi non finiscono qui: l’articolo 16 prevede che debbano essere assoggettate al “rito speciale urgente” soltanto le cause di licenziamento e quelle aventi a oggetto domande “fondate sugli identici fatti costitutivi”. Senonché la norma omette di considerare che in molti casi, insieme alle cause di licenziamento, si associano domande per demansionamento, mobbing, inquadramento professionale superiore e simili. Ciò comporterà verosimilmente duplicazioni di giudizi aventi a oggetto situazioni intimamente connesse e compenetrate al licenziamento, pur se non esattamente “fondate sugli identici fatti costitutivi”, con il rischio ulteriore di aumento delle controversie anche sull’ambito di applicazione del nuovo rito, così che le parti si troveranno con estrema probabilità anche a “litigare su come litigare”.

Meglio sarebbe stato, prima di introdurre nuove norme processuali artificiose e tutte da collaudare nella pratica, creando nel contempo rilevanti problemi di diritto transitorio (come si è constatato tristemente nell’ultimo ventennio sia nel processo civile che in quello penale), far funzionare il processo del lavoro che esiste dal 1973 e che tutto sommato in alcuni Tribunali già funziona discretamente (permettendo, come a Milano, l’emanazione di sentenze di primo grado in un tempo inferiore all’anno).

Il processo del lavoro è infatti già ora caratterizzato da requisiti dell’oralità e immediatezza che consentono un equilibrato contemperamento con l’esigenza di ricerca della verità materiale. Il giudizio di primo grado si introduce con ricorso al Giudice del Lavoro, il quale entro cinque giorni fissa l’udienza di discussione entro i sessanta giorni successivi, concedendo al convenuto di costituirsi in giudizio entro dieci giorni prima dell’udienza stessa. Le parti nei propri atti di costituzione in giudizio devono indicare, a pena di decadenza, tutti i mezzi di prova di cui intendono avvalersi. Nella prima udienza il Giudice valuta l’opportunità di disporre atti istruttori e nell’eventualità dispone l’assunzione delle prove nell’udienza immediatamente successiva; nel caso contrario, già nella prima udienza, invita le parti alla discussione e decide la causa dando immediata lettura del dispositivo, salvo differimento non superiore a dieci giorni.

Non sono ammesse “udienze di mero rinvio” e tra un’udienza e l’altra il codice prevede un tempo non superiore a dieci giorni, sicché se si rispettassero le norme già esistenti (rendendo perentori i termini, quantomeno per i licenziamenti) si potrebbero avere sentenze di primo grado nell’arco di pochi mesi. Del resto, con l’articolo 32 del “Collegato lavoro” (L. n. 183 del 2010), è previsto un termine decadenziale di impugnazione dei recessi di 270 giorni, laddove in precedenza si ammetteva il ricorso entro cinque anni dal licenziamento.

Se poi vi fossero situazioni eccezionali che non consentono di attendere neppure pochi mesi, si potrebbe comunque proporre il ricorso di urgenza ex art. 700 c.p.c. che permette già con le norme vigenti di ottenere un’ordinanza di sospensione del licenziamento nell’arco di poche settimane, laddove sussistano i presupposti del fumus boni iuris (ragionevole fondatezza del diritto azionato, rilevabile senza approfondita istruttoria) e del periculum in mora (pregiudizio imminente e irreparabile del ritardo).

È inoltre già prevista per il caso di discriminazioni (anche nel licenziamento) una speciale procedura d’urgenza introdotta dalla L. D.Lgs. n. 216 del 2003. E va anche ricordato che in caso di licenziamento (anche per giusta causa) è comunque prevista per i 12 mesi successivi una indennità mensile di disoccupazione (artt. 22-38 del ddl) in sostituzione degli “ammortizzatori sociali” già esistenti.

Insomma, prima di innovare e pensare di risolvere d’incanto una situazione obiettivamente problematica, sarebbe molto più utile e risolutivo far funzionare realmente quel che già c’è. Come già avvertiva Manzoni due secoli fa “non sempre ciò che viene dopo è progresso”.