In queste settimane, nelle quali è in discussione una complessa riforma delle discipline del lavoro, uno degli argomenti caldi è quello della cosiddetta flessibilità “in entrata”. I termini generali della questione sono ampiamente noti; ed è anche ben chiaro il collegamento della problematica con quella della flessibilità “in uscita”: i datori di lavoro, per varie esigenze – alcune condivisibili, altre un po’ meno -, chiedono di poter fruire di sufficienti spazi di libertà per stipulare contratti di lavoro a tempo determinato (con assunzione diretta, ovvero tramite agenzia di somministrazione) per sottrarre una parte dell’organico alle rigidità delle norme sui licenziamenti.

In particolare, vi sono due tipologie di esigenze imprenditoriali, che oggi assumono particolare rilievo. La prima è strettamente connessa all’attuale contesto economico, che, in moltissimi casi, impone alle imprese grandi margini di incertezza sulle fluttuazioni dei carichi di lavoro: incertezza alla quale corrisponde l’obiettiva esigenza delle imprese stesse di poter contare su una quota di dipendenti “non stabili”. Ma c’è anche una seconda, diversa esigenza, non meno sentita, soprattutto nelle imprese medie e piccole (e, quindi, nella maggior parte delle realtà produttive italiane): la necessità di “conoscere” il dipendente, le sue motivazioni e la sua capacità di integrarsi nell’organizzazione aziendale, e quindi di far precedere la stabilizzazione del rapporto da un congruo periodo di “prova”.

Con riferimento a questa seconda esigenza, si può senz’altro affermare che il contratto a termine e la somministrazione vengono spesso utilizzati in modo distorto, quali surrogati del patto di prova. E, tuttavia, se tale uso “distorto” è così diffuso (e lo è), le parti sociali dovrebbero seriamente interrogarsi sulla responsabilità che esse hanno, nel prevedere, nei contratti collettivi, durate troppo brevi del suddetto patto di prova (che, non dimentichiamolo, la legge consentirebbe di prolungare sino a sei mesi).

Sta di fatto che tutte le suddette esigenze imprenditoriali si scontrano con l’altrettanto legittima aspirazione dei lavoratori a ottenere la stabilità del proprio posto di lavoro: stabilità che significa anche maggior sicurezza (per quanto si possa essere sicuri di questi tempi) e miglior qualità della vita propria e della propria famiglia.

Si spiega, così, la ragione del nutrito contenzioso che, di questi tempi, fiorisce presso i Tribunali del lavoro, ai quali molti dipendenti assunti a termine o somministrati dalle agenzie di lavoro si rivolgono per rivendicare la sussistenza di rapporti a tempo indeterminato, contestando, nella maggior parte dei casi, l’insussistenza delle giustificazioni di ordine tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, in mancanza delle quali la legge riconosce loro il diritto alla “stabilizzazione”. Spesso, peraltro, tale diritto viene loro riconosciuto, senza neppure verificare se tali giustificazioni esistano: per il riconoscimento di detta stabilizzazione, infatti, è sufficiente che le stesse (come spesso succede) non siano state sufficientemente specificate nei testi scritti del contratto di lavoro o di quello di somministrazione. Va infine considerato che ben difficilmente i Giudici riconoscono, tra le giustificazioni ammesse, quella della “prova” del lavoratore.

Di tutto ciò le imprese si lamentano, affermando che la disciplina imporrebbe loro molti “trabocchetti”. Spesso, tuttavia, la critica è viziata da una conoscenza parziale della normativa: davvero gli imprenditori sono a conoscenza di tutte le opportunità che la legge offre loro? E, dunque, davvero riescono a sfruttare tali opportunità? È bene, quindi, che gli imprenditori sappiano che il legislatore si sta in effetti facendo carico, almeno in parte delle loro esigenze, perché – pur rimanendo fermo nel non liberalizzare totalmente il ricorso ai contratti e alle somministrazioni a termine (soluzione, questa, che non solo introdurrebbe un’ingiusta deriva verso la precarizzazione, ma che risulterebbe immediatamente censurabile per violazione delle discipline comunitarie) – sta introducendo un numero sempre maggiore di ipotesi nelle quali è possibile ricorrere a tali contratti temporanei con modalità “acausale”: senza, cioè, che vi sia la necessità di dichiarare, né tantomeno di provare la sussistenza di quelle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzative o sostitutivo, sulle quali tante imprese “cadono” in sede contenziosa.

In primo luogo, il d.lgs. n. 24 del 2012 ha allargato la possibilità di ricorrere alla somministrazione “acausale” di lavoro a tempo determinato, quando, con la stessa, vengano occupati lavoratori fruenti di indennità di disoccupazione e ogni altra forma di ammortizzatore sociale; ovvero lavoratori definiti “svantaggiati” o “molto svantaggiati” ai sensi del Regolamento comunitario n. 800/2008 (l’elenco è ampio, e comprende: i lavoratori senza un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi; quelli non in possesso di un diploma di scuola media superiore o professionale; gli ultracinquantenni; gli adulti che vivono soli con una o più persone a carico; i lavoratori occupati in professioni o settori caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera almeno del 25% la disparità media uomo-donna in tutti i settori economici dello Stato, se il lavoratore interessato appartiene al genere sottorappresentato; i membri di una minoranza nazionale all’interno dello Stato che hanno necessità di consolidare le proprie esperienze in termini di conoscenze linguistiche, di formazione professionale o di lavoro, per migliorare le prospettive di accesso a un’occupazione stabile; per alcune di tali categorie dovrà a breve essere emanato un decreto ministeriale attuativo). Ma, soprattutto, il decreto n. 24 attribuisce alla contrattazione collettiva, anche aziendale, il potere di definire ulteriori fattispecie di ricorso alla somministrazione “acausale”.

Le potenzialità insite in tale ultima previsione sono evidentissime. Laddove, infatti, l’impresa abbia davvero l’esigenza di ricorrere con maggiore libertà, e senza dover fornire, di volta in volta, specifiche giustificazioni, a prestazioni di lavoro temporaneo, la contrattazione le consente una reale chance di “liberalizzare” di una quota delle assunzioni. Ed è importante che la legge legittimi la contrattazione aziendale o territoriale, con la quale si può trovare punto di equilibrio tra le effettive esigenze delle imprese (di quelle specifiche imprese, in quel particolare contesto) e la necessità di impedire forme di precarizzazione eccessiva e, quindi, abusi.

Rimane l’altra esigenza di “provare” il lavoratore da assumere, che, come già detto, nelle imprese medio-piccole è particolarmente sentita. In tale prospettiva, l’art. 3 del testo del disegno di legge sulla riforma del mercato del lavoro, attualmente in discussione al Senato, consente il ricorso “acausale” nella “ipotesi del primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a 12 mesi, concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato”. In parole povere: il primo rapporto a termine che l’impresa instaurerà, direttamente o tramite agenzia di somministrazione, con un nuovo lavoratore, potrà essere concluso senza dover fornire giustificazioni. Se la norma diventerà legge, potrà dunque dirsi ispirata da un sano realismo.

Tuttavia, mi pare che la stessa, per come formulata, solleciti almeno un paio di rilievi critici. In primo luogo, la norma presenta un “difetto”, che a mio avviso, andrebbe corretto. In assenza di esplicita previsione di segno contrario, anche il lavoratore che abbia terminato il rapporto a termine “acausale”, senza essere poi stabilizzato, potrà rivendicare il diritto alla precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato, che il datore di lavoro effettui, per le stesse mansioni, nei 12 mesi successivi alla cessazione del suo rapporto. Tale diritto, infatti, viene riconosciuto dall’art. 5, l. n. 368 del 2001, a tutti i lavoratori assunti a termine (non a quelli somministrati) che ne facciano richiesta, salva diversa previsione di legge o di contratto collettivo. Se, però, l’imprenditore non ha voluto stabilizzare il rapporto a termine, evidentemente ha considerato in modo non positivo l’“esperimento”. Se così è, consentirgli quell’“esperimento”, ma, nel contempo, imporgli limitazioni nelle successive scelte relative all’inserimento di nuovi lavoratori, sembra essere un po’ contraddittorio.

In secondo luogo, il recente emendamento al testo del disegno di legge, che ha elevato la durata massima del contratto “acausale” dagli originari 6 mesi a 12, ha anche previsto un discutibile intervento della contrattazione collettiva. Il nuovo testo, infatti, prevede che “i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni […] comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere, in via diretta a livello interconfederale o di categoria ovvero in via delegata ai livelli decentrati, che in luogo dell’ipotesi” appena esaminata (che, quindi, sembrerebbe non essere più praticabile), l’assunzione o la somministrazione “acausale” vengano effettuate, in funzione di determinati processi organizzativi, “nel limite complessivo del 6% del totale dei lavoratori occupati nell’ambito dell’unità produttiva”. È evidente che l’emendamento fa una gran confusione. Esso, infatti, sembra consentire alla contrattazione di sottrarre al datore di lavoro la facoltà di utilizzare l’assunzione a termine come “test” individuale, confondendo tale esigenza con quella – che si è visto essere del tutto diversa – di flessibilizzare una quota di assunzioni in funzione (non della persona del lavoratore, ma) delle esigenze complessive del ciclo produttivo.

Inoltre, la norma finisce per sovrapporsi con quella, già esaminata, vigente per le somministrazioni di lavoro, la quale, con scelta senz’altro da preferire, lascia maggiori spazi di libertà alla contrattazione decentrata. Il “gioco” degli emendamenti rischia, anche questa volta, di introdurre effetti a dir poco discutibili.