In un precedente articolo ho ricordato il ruolo strategico dei servizi per l’impiego e delle politiche attive per il funzionamento del mercato del lavoro, evidenziando, peraltro, le criticità persistenti nella loro attivazione e la scarsa attenzione dedicata al tema nella trattativa sulla riforma del mercato del lavoro. Com’è noto, in questi giorni è in discussione al Senato il disegno di legge n. 3249, Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, presentato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, che traduce in un testo normativo le scelte assunte dal Governo all’esito di quella trattativa.
Il testo del provvedimento è evidentemente provvisorio, tuttavia è ragionevolmente ipotizzabile che sarà approvato senza eccessivi stravolgimenti e del complessivo impianto strutturale e della disciplina dei singoli aspetti oggetto della “riforma”: non è solo la volontà in tal senso, a più riprese, espressa da autorevoli membri della compagine governativa che induce a formulare questa valutazione, quanto la considerazione della quantità e del contenuto degli emendamenti finora presentati nel dibattito parlamentare; questi, oltretutto, si concentrano in prevalenza sui primi articoli del provvedimento, quelli relativi alle tipologie contrattuali e ai licenziamenti.
Il disegno di legge è composto di 72 articoli, suddivisi in VIII Capi, titolati, rispettivamente: “Disposizioni generali”, “Tipologie contrattuali”, “Disciplina in tema di flessibilità in uscita e tutele del lavoratore”, “Ammortizzatori sociali, tutele in costanza di rapporto di lavoro e protezione dei lavoratori anziani”, “Ulteriori disposizioni in materia di mercato del lavoro”, “Politiche attive e servizi per l’impiego”, “Apprendimento permanente” e “Copertura finanziaria”.
Le disposizioni più significative del Capo VI sulle “Politiche attive e servizi per l’impiego” riguardano: a) la modifica dell’art. 3 del decreto legislativo n. 181 del 2000, la cui rubrica è esplicitamente dedicata ai “Livelli essenziali delle prestazioni concernenti i servizi per l’impiego” e al quale vengono aggiunti alcuni commi che stabiliscono livelli di prestazione specifici per i disoccupati “beneficiari di ammortizzatori sociali” (art. 59); b) la definizione di “congruità” dell’offerta di lavoro da parte dei servizi per l’impiego, che questi disoccupati sono tenuti ad accettare, pena la perdita dei trattamenti economici (art. 62); c) la disposizione che autorizza l’Inps a esercitare l’attività di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro (art. 63); d) la delega al Governo in materia di politiche attive e servizi per l’impiego, che riprende e integra quella già prevista dall’art. 1, comma 30, legge n. 247 del 2007, confermata dall’art. 46, legge n. 183 del 2010.
Accanto a queste disposizioni si possono considerare quelle riguardanti l’Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI) e l’Assicurazione sociale per l’impiego. Trattamenti brevi, ossia i nuovi regimi destinati a sostituire i trattamenti di disoccupazione ordinaria e con requisiti ridotti. In tal caso, la connessione con i servizi per l’impiego e le politiche attive è data dal fatto che il possesso della stato di disoccupazione, da un lato, è requisito per il diritto trattamento, dall’altro, comporta l’erogazione delle prestazioni di cui all’art. 3 d.lgs. n. 181/2000 sopra citato, e altresì dal fatto che il rifiuto dell’offerta congrua determina, come accennato, la perdita del beneficio.
Che dire di questo corpus normativo, nelle sue parti e nel suo complesso? Se opportunamente il legislatore ha chiarito che quelli di cui all’art. 3 d.lgs. n. 181/2000 sono “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i servizi per l’impiego”, perché poi li ha differenziati in relazione al fatto che il disoccupato sia, o meno, percettore di un trattamento di disoccupazione? Ai sensi dell’art. 117, comma 2, Cost., infatti, i lep garantiscono a tutti i cittadini il godimento dei diritti sociali costituzionalmente riconosciuti e, in quanto tali, dovrebbero essere assistiti dal carattere dell’uniformità. Forse, sono anche intuibili le ragioni della differenziazione – peraltro già esistente, ma non così evidente nei suoi risvolti sistemici -, che resta però di dubbia costituzionalità e, al contempo, ripropone il gap nel mercato del lavoro tra insider e outsider, riducendo l’accessibilità ai servizi per l’impiego di quelle persone, in primis i giovani, che non siano in quella condizione.
Quanto alla “offerta di lavoro congrua”, anche la previsione relativa riprende quanto in precedenza era stato disposto con l’art. 1 quinquies del decreto legge n. 249 del 2004. Ora, tuttavia, essa rischia di svuotare in misura significativa la competenza, che il d.lgs. n. 181 del 2000 rimette alle Regioni, a stabilire i termini di distanza e di tempo di percorrenza della congruità dell’offerta.
Dell’autorizzazione all’Inps a svolgere attività di intermediazione, poi, c’è da chiedersi quali specifiche competenze professionali l’ente previdenziale possa vantare al riguardo, tanto più che al contempo si richiede allo stesso un’ulteriore riduzione delle spese di funzionamento (art. 72). Vero è che esso è già abilitato a ricevere le dichiarazioni di immediata disponibilità al lavoro, necessarie per ottenere lo status di disoccupato, ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 181/2000, ma si tratta, appunto, di mera ricezione – tra l’altro svolta esclusivamente tramite canale informatico -, mentre la dichiarazione è la porta d’accesso di un percorso da concordare con i servizi competenti, comprensivo delle prestazioni di cui sopra, e che richiedono competenze specifiche.
I criteri di delega, infine, sono talmente generici da non consentire di comprendere se vi sia un’idea portante del futuro intervento. Comunque, viene ribadita l’opzione per la “attivazione del soggetto che cerca lavoro […] al fine di incentivare la ricerca attiva di una nuova occupazione”, già prevista in più disposizioni, come accennato, relativamente ai soli percettori di trattamenti previdenziali. Proprio questa sottolineatura, peraltro, rimanda e acuisce il problema dei livelli delle prestazioni e della realizzazione di sistemi di servizi per l’impiego a chiara governance pubblica, ma che vedano il concorrere di operatori pubblici e privati. Di tutto ciò il provvedimento tace, in un momento reso ancora più incerto dalla prevista riduzione delle funzioni delle province, tra cui rientrano quelle in materia di collocamento.
Dunque, il disegno di legge si presenta ampiamente carente sul tema dei servizi per l’impiego e le politiche attive: carente di progettualità politica, carente di risposte concrete ai grandi problemi di cui si è in precedenza scritto e carente di una visione complessiva del tema, compreso, piuttosto, nell’ottica riduttiva dei percettori di un trattamento di disoccupazione. Da un lato, perciò, si rischia di dimenticare e, nelle soluzioni concrete, emarginare coloro che cercano di entrare per la prima volta (i giovani) o di rientrare (ad esempio, le donne) nel mercato del lavoro; dall’altro, le soluzioni prospettate si colorano di una marcata tendenza centralistica, se non statalista (si pensi anche all’obbligatorietà dei fondi di solidarietà, di cui agli artt. 42-50), ma non pienamente coordinate con il quadro normativo esistente.
E si allarga l’orizzonte altre nubi si addensano. Nella relazione introduttiva al provvedimento si legge che “le singole parti del testo […] sono caratterizzate da una forte interconnessione sistematica e mirano a creare uno stabile e coerente rapporto fra settori di intervento troppo spesso in passato disciplinati secondo logiche ‘di settore’ e in assenza di un organico disegno riformatore”. E allora chiediamoci: quale interconnessione e quale coerenza rispetto ai servizi per l’impiego si può cogliere dalla previsione secondo cui, oltre la normale contribuzione per l’ASpI, ogni datore di lavoro, in qualunque caso di licenziamento (anche per giustificato motivo soggettivo o giusta causa), è tenuto a pagare un’ulteriore somma a finanziamento di quel trattamento?