Sebbene oggetto di recente, meno di un anno fa, di un organico disegno riformatore trasfuso nel cosiddetto Testo unico dell’apprendistato (d.lgs. n. 167 del 14 settembre 2011), anche il contratto di apprendistato risulta interessato dalla legge Fornero di (ennesima) riforma del mercato del lavoro. In questa sede, tuttavia, non vogliamo soffermarci sulle modifiche della normativa del 2011 prodotte dalla L. n. 92 del 2012, ma, invece, sulla mancata occasione di intervento su una questione che si sta rilevando di non marginale impatto in ordine alla regolamentazione dell’istituto.
Invero, nel nuovo contesto normativo delineato dal T.U. del 2011 si pone il problema dell’efficacia di alcune clausole contrattuali collettive che prevedono, in relazione al Piano formativo individuale (Pfi), il rilascio del parere di conformità da parte degli Enti bilaterali i quali, in alcuni casi, subordinano tale rilascio anche al pagamento della quota di iscrizione delle aziende agli Enti medesimi. Si pone pertanto il problema di verificare se le disposizioni del T.U. consentano alla contrattazione collettiva, in sede di regolamentazione dell’istituto, di prevedere come obbligatoria, per il datore di lavoro, l’acquisizione del parere preventivo di conformità degli Enti bilaterali sul Piano formativo individuale.
Tra le tesi che si contrappongono c’è chi ritiene che le norme del T.U. attribuiscano implicitamente alla contrattazione collettiva tale facoltà, facendo leva proprio sull’ampiezza della delega oggi concessa alla stessa dal citato art. 2 del T.U. e sulla circostanza che i principi generali fissati dall’art. 2 non vietano espressamente alla contrattazione collettiva di richiedere obbligatoriamente il rilascio del parere di conformità da parte degli Enti bilaterali. In tale prospettiva, una volta che il legislatore ha pienamente delegato la contrattazione collettiva a costruire il sistema di riferimento per ciascun settore produttivo questa potrebbe liberamente prevedere l’obbligatorietà del parere di conformità.
A tale impostazione si contrappone la tesi sostenuta dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro (cfr. Circolare della Fondazione Studi n. 10 del 22.05.2012). Secondo la Fondazione, le norme del T.U. non consentono assolutamente di ritenere che sia stato delegato alla contrattazione collettiva anche il controllo della congruità del percorso formativo, controllo che rimane di competenza degli organi ispettivi e del giudice. Per questo motivo, il parere di conformità previsto da alcuni contratti collettivi, seppure legittimo sul piano contrattuale associativo, non può ritenersi vincolante per le aziende ai fini della legittima costituzione del rapporto di lavoro, né, in mancanza di una specifica previsione di legge in tal senso, allo stesso può riconoscersi natura autorizzatoria preventiva.
Al fine di sciogliere un dubbio di non lieve portata, Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro ha chiesto, con interpello al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, un chiarimento proprio sulla questione in esame. Il Ministero ha fornito risposta all’interpello il 14 giugno 2012 (prot. 37/0011077) fornendo un’interpretazione delle norme del T.U. più vicina a quella proposta dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro. In estrema sintesi, secondo il Ministero, la definizione del Piano formativo individuale può avvenire “anche” sulla base di “moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli Enti bilaterali” (art. 1, lett. a), d.lgs. n. 167 del 2011), da cui emerge un ruolo comunque eventuale degli stessi Enti e non già necessario ai fini della valida stipulazione del contratto in generale.
Risulta di grande interesse, in ogni caso, la parte conclusiva della risposta del Ministero sul valore “sostanziale” del parere di conformità, in quanto in ogni caso “il coinvolgimento dell’Ente può costituire un elemento significativo anche in relazione al giudizio che il personale ispettivo dovrà effettuare in ordine al corretto adempimento dell’obbligo formativo”. Viene espressamente raccomandato, anzi, al personale ispettivo “di concentrare prioritariamente l’attenzione proprio nei confronti di quei contratti di apprendistato e di quei Pfi che non sono stati sottoposti alle valutazioni dell’Ente bilaterale di riferimento”.
Come si può immaginare, la vicenda non può dirsi affatto conclusa, giacché la posizione assunta dal Ministero non ha, a sua volta, mancato di suscitare critiche e perplessità da parte di chi rimane convinto della possibilità di imporre, in base alla previsione del contratto collettivo, al datore di lavoro l’acquisizione del parere di conformità rilasciato dall’Ente bilaterale.
Volendo proporre una valutazione di sintesi “allo stato degli atti” su tale scottante questione, mi sento innanzitutto di osservare che il suddetto parere di conformità risulti elemento di assoluto rilievo per una gestione trasparente dell’istituto. Invero, attraverso il parere di conformità, gli Enti bilaterali, cioè i rappresentanti di entrambe le parti contrattuali, possono monitorare e, dunque, controllare in via preventiva, il corretto utilizzo dello strumento dell’apprendistato da parte del datore di lavoro. In tal modo si attua un sistema che permette di evitare o quantomeno di ridurre fenomeni di dumping da parte di imprese a diversi livelli “lontane” dal sistema legale delle regole in materia di lavoro, in danno dei lavoratori e delle imprese che si attengono alle regole.
Allo stesso tempo, sul punto dello stretto diritto, tuttavia, si possono esprimere diffusi dubbi in relazione al carattere cogente, vincolante del suddetto parere, cioè quale elemento essenziale al fine della legittima stipula di un contratto di apprendistato. La lettera della legge non appare a prima vista dirimente, giacché manca qualsiasi esplicito riferimento a tale possibile ruolo “autorizzatorio” tramite il suddetto parere di conformità rilasciato dagli Enti bilaterali. Nel silenzio del legislatore, è lecito dubitare che la contrattazione collettiva sia libera di intervenire, in mancanza di un espresso rinvio da parte del legislatore che la autorizzi a intervenire in materia.
Nell’ambito della normativa in materia di mercato del lavoro, infatti, resta molto incerta l’individuazione di trattamenti “migliorativi” che la contrattazione collettiva potrebbe sempre disporre. Invero, tale distinzione risulta agevole con riguardo a trattamenti normativi “interni” al rapporto (per esempio, la disciplina delle ferie più favorevole di quella legale), ma al contrario, risulta di difficile individuazione in un ambito in cui l’irrigidimento delle regole in materia di assunzione del lavoratore, disincentivando le imprese, rischia di rendere più difficile per questo il reperimento di una occasione di lavoro.
Ne deriverebbe, allora, che la contrattazione collettiva si possa muovere solo negli ambiti espressamente consentiti, senza, quindi, la possibilità di appesantire con ulteriori oneri o vincoli dalla legge non previsti, le modalità di accesso a una determinata tipologia contrattuale, come nel nostro caso in materia di apprendistato. La questione si complica nel caso di non iscrizione del datore di lavoro all’associazione datoriale stipulante il contratto collettivo. Da un lato, invero, si potrebbe ritenere che anche il datore di lavoro non iscritto che voglia avvalersi del contratto di apprendistato come regolato dal quel determinato contratto collettivo possa essere obbligato alla sua integrale applicazione, in quanto le clausole contrattuali sull’apprendistato si possono ritenere legate da un vincolo di inscindibilità, che ne imporrebbe una loro applicazione congiunta (cfr., ad esempio, Cass., 3 novembre 2005, n. 21302).
Tuttavia, dall’altro l’effetto che appare impedito, laddove previsto, è quello di obbligare il datore di lavoro non iscritto ad aderire all’Ente bilaterale, che ove previsto, parrebbe in violazione dei noti principi di cui all’art. 39 della Costituzione. Infatti, come già la dottrina e la giurisprudenza hanno avuto modo di osservare, l’iscrizione all’Ente bilaterale va ricompresa nella parte cosiddetta obbligatoria del contratto collettivo, che come tale crea obblighi per le sole parti stipulanti, rispetto alle quali il singolo datore di lavoro rimane terzo.
Insomma, delineati, ma non univocamente chiariti i termini della questione, soltanto un intervento chiarificatore del legislatore potrebbe dirimerla, attraverso un’esplicita disposizione che consenta un intervento del genere da parte della contrattazione collettiva, ma tale opportunità non è stata colta nel recente provvedimento approvato dalle Camere. In tal modo si sarebbe potuto anche chiarire il valore “certificatorio” del parere di conformità rispetto all’attività degli ispettori del lavoro, nella ricerca di casi di violazione della normativa in materia, sul quale si è espresso anche il Ministero del lavoro nel caso sopra ricordato.
Nella legislazione recente, peraltro, un sistema del genere, non manca, giacché è stato espressamente delineato dal legislatore nell’ambito della normativa in materia di sicurezza sul lavoro dettata dal d.lgs. n. 81 del 2008. Si vuol far riferimento all’istituto della “asseverazione”, resa al fine “della adozione e della efficace attuazione dei modelli di organizzazione e gestione della sicurezza di cui all’articolo 30 del decreto”, che va effettuata attraverso “specifiche commissioni paritetiche, tecnicamente competenti” (art. 51, commi 3bis e 3ter, inseriti dall’art. 30, comma 1, lett. a), d.lgs. 3 agosto 2009, n. 106).
La medesima norma prevede espressamente che della predetta asseverazione “gli organi di vigilanza possono tener conto ai fini della programmazione delle proprie attività” (art. 51, comma 3bis, inserito dall’art. 30, comma 1, lett. a), d.lgs. 3 agosto 2009, n. 106), con la conseguenza di indurre gli organi di vigilanza di programmare i controlli verso tali aziende in via diremmo “postergata” rispetto alle aziende meno virtuose che non si siano adoperate per ottenere la asseverazione.