Proprio mercoledì scorso, come noto, è entrata in vigore la legge 28 giugno 2012, n. 92, contenente “disposizioni in materia di mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”. Si tratta di un provvedimento di ampie dimensioni, dai molteplici contenuti e di non facile lettura: basti pensare che i 4 articoli attuali contengono, con le (poche) modifiche apportate nel corso del dibattito parlamentare, l’equivalente dei 72 articoli di cui era composto il progetto di legge.
Di alcuni aspetti abbiamo trattato in altra occasione, qui proveremo a capire cosa cambia in tema di lavoro autonomo, più precisamente di lavoro a progetto e prestazioni lavorative rese da soggetti titolari di posizione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto (partite Iva). Va subito detto che l’intervento mira esplicitamente e rendere più difficile il ricorso a queste tipologie di lavoro.
Del resto, l’art. 1 prima dichiara che la legge intende “realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione”, poi precisa che ciò intende fare “favorendo l’instaurazione di rapporti più stabili” di modo che il “lavoro subordinato a tempo indeterminato” sia il “contratto dominante, quale forma comune di lavoro”; a questa finalità, inoltre, si collega quella di ridistribuire “in modo più equo le tutele dell’impiego”, tra l’altro, “contrastando l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali”. A tal fine, nel disciplinare le due forme di lavoro autonomo sopra richiamate, il legislatore ha introdotto una serie di presunzioni, che ne rendono decisamente più incerto e rischioso l’utilizzo.
L’intervento sul lavoro a progetto riguarda i contratti stipulati dal 18 luglio e tocca sia la fattispecie, sia la disciplina del rapporto. Quanto alla prima, secondo il testo originario dell’art. 61 del decreto legislativo n. 276 del 2003 i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione dovevano essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente, mentre ora restano i progetti specifici, ma scompaiono “programmi” e “fasi”. Si aggiunge, inoltre, che “il progetto deve essere funzionalmente collegato a un determinato risultato finale e non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente”.
Appare fondamentale, allora, porre attenzione nell’individuare un risultato finale, ossia un bene che non può coincidere con l’attività genericamente svolta dal committente, ma sia connesso alla specifica attività richiesta al prestatore d’opera, e sia preventivamente individuato nei suoi tratti caratterizzanti, qualitativi e quantitativi.
Inoltre, l’area potenzialmente coperta dal contratto a progetto è ulteriormente circoscritta dal divieto di utilizzarlo per lo “svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi” – che possono essere individuati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale – e, soprattutto, dalla presunzione dell’esistenza di rapporti di lavoro subordinato, sin dalla data di costituzione del rapporto, qualora “l’attività del collaboratore sia svolta con modalità analoghe a quella svolta dai lavoratori dipendenti dall’impresa committente”, salvo si tratti di professionalità elevate, la cui individuazione, tuttavia, sembra rimessa alla contrattazione collettiva.
In effetti, non è chiaro se sia solo la contrattazione a poter individuare i “compiti meramente esecutivi e ripetitivi” come le “modalità analoghe”; se così non fosse la vaghezza delle due espressioni rimette al giudice un’ampia discrezionalità interpretativa, che alimenterà l’incertezza delle situazioni giuridiche.
Sul piano della disciplina, invece, va richiamata la nuova formulazione dell’art. 63, d.lgs. n. 276/2003, che introduce una sorta di trattamento economico minimo garantito. Stabilisce, infatti, la disposizione che il compenso “non può essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività […] dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” – precisando altresì che deve trattarsi di accordi interconfederali o contratti di categoria o, “ su loro delega” decentrati – e in loro assenza rinvia alle “retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto”.
In altri termini, in assenza di una contrattazione collettiva specifica per questi lavoratori il legislatore ha individuato un parametro alternativo per quantificare il trattamento economico minimo, rendendo dunque azionabile in giudizio il diritto riconosciuto al prestatore d’opera.
Tralasciando altre modifiche al lavoro a progetto, l’art. 1, comma 26, della legge in esame, aggiunge un art. 69-bis, al d.lgs. n. 276/2003, al fine di ridurre il ricorso alle prestazioni lavorative rese da persona titolare di posizione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. A tal fine, si ricorre ancora una volta alla tecnica delle presunzioni, che trova applicazione per i rapporti instaurati dal 18 luglio 2012, e, decorsi dodici mesi da tale data, anche a quelli instaurati in epoca precedente.
Stabilisce, dunque la disposizione che tali prestazioni “sono considerate […] rapporti di collaborazione coordinata e continuativa”, quando ricorrano almeno due dei seguenti presupposti: a) che la collaborazione abbia una durata di almeno otto mesi nell’arco dell’anno solare; b) che il corrispettivo della collaborazione costituisca più dell’80% dei corrispettivi complessivamente percepiti nello stesso anno solare. Ai fini della soglia indicata si sommano i corrispettivi percepiti da soggetti “riconducibili al medesimo centro di interessi”; c) che il collaboratore disponga di una postazione fissa presso una delle sedi del committente.
Peraltro, se sarà approvato, come pare, il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, in discussione alla Camera, modificherà la lett. a) nel senso di richiedere che la prestazione abbia “una durata complessiva superiore a otto mesi annui per due anni consecutivi” e la lett. b) riferendo la soglia percentuale ai “corrispettivi annui complessivamente percepiti […] nell’arco di due anni solari consecutivi”.
Già da ora, invece, la presunzione non scatta per le prestazioni che richiedano competenze tecniche di grado elevato e siano svolte da soggetto titolare di un reddito almeno pari a 1,25 volte il minimale di retribuzione imponibile per le gestioni dei lavoratori autonomi gestite dall’Inps, oppure riguardino attività che richiedono l’iscrizione a ordini professionali, appositi registri, albi, ruoli o elenchi professionali.
Infine, si deve notare che la presunzione di cui sopra ammette la prova contraria, ma laddove dovesse risultare sussistente rischia di provocare un effetto a cascata fino a determinare la trasformazione del rapporto di lavoro autonomo in uno di lavoro subordinato. Infatti, anche il contratto a progetto è assistito, ai sensi dell’art. 69, da una presunzione, in tal caso, assoluta, secondo la quale l’inesistenza del progetto determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Ora, poiché la presunzione prevista dall’art. 69-bis determina l’integrale applicazione della disciplina del lavoro a progetto, ecco che qualora non fosse individuabile un progetto – come può ritenersi succederà nella maggior parte dei casi – la prestazione in regime di partita Iva transiterà direttamente al lavoro subordinato.