Come è noto, la “Riforma Fornero” ha introdotto varie disposizioni restrittive per l’instaurazione di rapporti “a partita Iva” di singoli collaboratori con le Aziende. Il Legislatore ha inteso intervenire su tale tipologia contrattuale, particolarmente diffusa nel nostro Paese, non solo per le prestazioni “classiche” rese da professionisti iscritti ad Albi, ma anche per le generiche collaborazioni stabili che le parti hanno voluto sottrarre al regime delle “collaborazioni a progetto” o del lavoro subordinato. 

A tal fine il comma 26 dell’art. 1 della L. 92 del 2012 prevede che, al ricorrere di determinate condizioni, la collaborazione resa dalla persona titolare di partita Iva venga ricondotta nella fattispecie del contratto di collaborazione a progetto con applicazione della relativa disciplina, compresi la maggior aliquota contributiva (27% per il 2013) e i più rigorosi oneri formali e procedurali.

In particolare, il rapporto di collaborazione a “partita Iva” deve essere riqualificato in contratto di collaborazione a progetto, salvo che sia fornita prova contraria da parte del committente, qualora ricorrano almeno due delle tre seguenti condizioni: che la collaborazione con lo stesso committente si sviluppi per oltre otto mesi nell’arco di due anni solari; che sempre nel biennio il compenso derivante dalla collaborazione costituisca almeno l’80% del fatturato del professionista; che il collaboratore disponga di una postazione fissa di lavoro presso il committente.

L’applicazione della disciplina del “lavoro a progetto” comporta l’obbligo di individuare un progetto specifico focalizzato su un risultato concreto e che non può coincidere con l’oggetto stesso dell’attività aziendale.

La mancanza del progetto e delle caratteristiche richieste per quest’ultimo dalla nuova normativa determina la presunzione di sussistenza della natura subordinata del rapporto, con rilevanti conseguenze in capo all’azienda in termini di maggiore contribuzione previdenziale, di sanzioni amministrative e di applicazione delle tutele a favore del lavoratore in caso di licenziamento. 

Peraltro, anche laddove siano osservati i rigorosi presupposti formali introdotti dalla Riforma, il rapporto potrà sempre essere convertito in un rapporto di natura subordinata laddove emerga che il collaboratore è stato in concreto assoggettato al potere gerarchico e disciplinare del committente. 

La legge esclude dall’ambito di applicazione della nuova disciplina i collaboratori iscritti ad Albi che effettivamente esercitino la professione per la quale sono iscritti (avvocati e notai, architetti e ingegneri, commercialisti e ragionieri et cetera) e gli altri professionisti che svolgano un’attività connotata da competenze teoriche o tecnico-pratiche di grado elevato che percepiscano un reddito annuo da lavoro autonomo superiore a circa 18.000 euro.

A poche settimane dal 18 luglio 2012, data di entrata in vigore della riforma del mercato del lavoro, già si scorgono i primi effetti della nuova normativa sull’ampio e articolato panorama delle collaborazioni “a partita Iva”. 

E’ infatti di pochi giorni fa la notizia, diffusa dagli organi di stampa, secondo cui più di un terzo dei lavoratori occupati nei programmi di intrattenimento e approfondimento della Rai, ovvero oltre duemila persone, sono inquadrati con contratto “a partita Iva”. E secondo i nuovi criteri fissati dalla Riforma Fornero tali collaborazioni professionali potrebbero essere riqualificate come rapporti di lavoro subordinato, non sussistendo neppure i presupposti previsti dalla nuova normativa per la valida instaurazione di “collaborazioni a progetto”. 

Data l’impossibilità per la tv pubblica di stabilizzare con contratti a tempo indeterminato oltre duemila collaboratori “a partita Iva” – anche a motivo delle ingenti perdite di bilancio accumulate – il panorama che si delinea all’orizzonte non è sicuramente rassicurante né per i “professionisti” né per l’azienda. I rimedi alternativi ipotizzabili potrebbero essere la riduzione della durata delle collaborazioni con conseguente inserimento di nuovi professionisti o la conversione delle “partite Iva” in contratti a tempo determinato. Ma anche quest’ultima prospettiva non è priva di criticità. Ed infatti, secondo le nuove previsioni della Riforma, il primo rapporto di lavoro a tempo determinato che si intenda instaurare senza l’indicazione di ragioni di carattere tecnico produttivo organizzativo o sostitutivo (c.d. “acausale”) non può avere durata superiore ad un anno e non può essere prorogato. Sussistono invece rigidi vincoli e presupposti per l’instaurazione i contratti a termine “causali”, nonché per la loro eventuale prosecuzione in forma di “rinnovo” o di “proroga”. 

Il rischio che si profila è quello dell’utilizzo di tale tipologia contrattuale con continuo ricambio di lavoratori e con dispersione delle esperienze lavorative acquisite: si tratterebbe di una ulteriore “precarizzazione” dei rapporti di collaborazione in corso.

La Rai – che, come è noto, è controllata dal Tesoro – rischia quindi di essere sommersa da migliaia di cause di lavoro da parte di collaboratori che intendono essere stabilizzati, come hanno già preannunciato alcune associazioni di collaboratori.

A ben vedere, non si tratterebbe neppure di uno scenario nuovo: è già infatti accaduto negli anni scorsi ad altre Aziende di Stato (in primis Poste, Ferrovie e Alitalia) di subire migliaia di cause da parte di lavoratori che hanno impugnato – per lo più con successo – contratti a termine o di somministrazione ed hanno ottenuto l’assunzione a tempo indeterminato.  Ma oggi, in tempi di spending revue, questa non sarebbe proprio una prospettiva auspicabile…

L’alternativa, non meno drammatica, è la definitiva cessazione di tali forme di collaborazione da parte della Rai, il che comporterebbe da un lato minori servizi radiotelevisivi pubblici, e dall’altro ulteriore disoccupazione, a riguardo della quale pochi giorni fa l’Istat registrava un tasso del 10,5%, ovvero l’ennesimo minimo storico dal 1999.

D’altra parte non si può neppure ritenere che si tratti di un “caso isolato” riguardante i soli collaboratori della Rai: analogamente alle figure dei registi, degli inviati e dei cameramen, vi sono nel nostro Paese decine di migliaia di esperti informatici, professionisti di marketing, telecomunicazioni, media, trasporti, così come elettricisti, idraulici, meccanici e manutentori che percepiscono, per fare un esempio, un reddito annuale complessivo di 20 mila euro, di cui 17 mila ricevuto dallo stesso committente nell’ambito di un rapporto di natura personale e continuativa.

Con la riforma Fornero tutti costoro, che fino ad oggi svolgevano la loro attività prevalentemente con “partita iva” nell’ambito di “arti o professioni”, saranno assumibili soltanto con lavoro subordinato, essendo difficilmente attuabili altre forme di collaborazione; e non è detto che, in questo contesto, non si perdano per strada ulteriori posti di lavoro, dissipando nel contempo un enorme patrimonio di esperienze, competenze e professionalità che ha fatto la grandezza del nostro Paese. E ciò accadrebbe nell’ostinata ricerca di ricondurre a tutti i costi ogni forma di collaborazione nell’unico archetipo concepito del “rapporto di lavoro subordinato”.

Se la Riforma Fornero aveva l’obiettivo di “realizzare un mercato di lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione (art. 1 della legge n. 92/2012), una prima verifica sul campo non sembra purtroppo per ora confermare i buoni propositi governativi.