Nell’ultimo articolo abbiamo analizzato la riforma pensionistica del 2011 dal punto di vista del requisito anagrafico per il diritto alla pensione. In quell’occasione abbiamo segnalato l’esistenza di problemi di interpretazione e applicazione al settore del pubblico impiego della nuova disciplina. A essi il legislatore ha dato una risposta con le disposizioni di cui ai commi 4 e 5 dell’art. 4, d.l. 31 agosto 2013, n. 101, approvato in via definitiva martedì scorso al Senato e di prossima pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Entrambe le disposizioni recano norme cosiddette di interpretazione autentica e perciò esplicitano il senso da attribuirsi alle disposizioni interpretate, rispettivamente l’art. 24, comma 3, primo periodo, e comma 4, secondo periodo, d.l. n. 201 del 2011, convertito in l. n. 214 del 2011, fin dal momento della loro entrata in vigore, il 6 dicembre 2011.
Di queste ultime, la prima ha sancito l’inapplicabilità dei più elevati requisiti anagrafici e di contribuzione previsti dal medesimo articolo, per i lavoratori che «abbiano maturato entro il 31 dicembre 2011 i requisiti di età e di anzianità contributiva, previsti dalla normativa all’epoca vigente, ai fini del diritto all’accesso e alla decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità». L’altra ha incentivato la prosecuzione del rapporto di lavoro oltre la soglia anagrafica di accesso alla pensione – attualmente fissata a 66 anni e 3 mesi – e fino a 70 anni, precisando, tuttavia, per i dipendenti pubblici, che ciò è consentito «fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza».
Ora, con riferimento al pubblico impiego, è chiaro che l’obiettivo della riforma pensionistica, l’incremento dell’età di accesso ai trattamenti, si pone in contraddizione con il contestuale processo di riduzione degli organici avviato con i provvedimenti legislativi di revisione della spesa pubblica. E i problemi cui si è fatto cenno in apertura nascono proprio dal tentativo del Dipartimento della Funzione pubblica di contemperare questi opposti. Come? Con un’interpretazione di entrambe le disposizioni che tenga conto del regime dei limiti di età per la permanenza in servizio (il cosiddetto limite o età ordinamentale), secondo cui i dipendenti pubblici sono obbligatoriamente collocati a riposo di norma al compimento del 65° anno (età maggiori valgono per specifiche categorie), salvo che non abbiano ancora conseguito il requisito minimo per la pensione.
Così, quanto alla prima disposizione, una circolare (8 marzo 2012, n. 2) del suddetto Dipartimento ha previsto che, a partire dal 2012, «l’amministrazione […] dovrà collocare a riposo al compimento dei 65 anni […] quei dipendenti che nell’anno 2011 erano già in possesso della massima anzianità contributiva o della quota o comunque dei requisiti previsti per la pensione»; ossia, alternativamente: 1) 65 anni di età, 61 per le lavoratrici, e 20 di contribuzione per la pensione di vecchiaia in regime retributivo, oppure 5 anni di contribuzione, in regime contributivo; 2) 60 o 61 di età (indifferentemente per uomini e donne), congiuntamente a 36 o 35 anni di contribuzione, secondo il sistema delle “quote” – attualmente attestato al valore di 96, come somma di età anagrafica e anzianità contributiva -, oppure 40 anni di contribuzione indipendentemente dall’età anagrafica, per la pensione di anzianità.
Secondo questa interpretazione, perciò, la sussistenza in capo al pubblico dipendente del diritto a una qualsiasi delle tipologie di pensione previste dall’ordinamento sottrae all’applicazione dell’intera riforma, risultando inapplicabili, ad esempio, i nuovi limiti anagrafici per la maturazione della pensione di vecchiaia, anche se il lavoratore, a fine 2011, risulta in possesso dei requisiti per la pensione di anzianità, ma non di quelli a quella data vigenti per tale trattamento di vecchiaia (o viceversa). In proposito, si deve ricordare che la maturazione di un trattamento pensionistico a un’età inferiore al limite ordinamentale non costituisce di per sé ragione per l’interruzione del servizio, salvo che il lavoratore sia in possesso di un’anzianità contributiva di 40 anni: in tal caso, infatti, l’art. 72, comma 11, d.l. n. 112 del 2008, convertito in l. n. 133 del 2008, e successive modificazioni, ha attribuito alle amministrazioni pubbliche, fino al 2014, il potere di risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro.
L’interpretazione del Dipartimento non ha però trovato consenziente la giurisprudenza, secondo cui vi sarebbe un diritto del lavoratore a maturare il «limite massimo anagrafico previsto dalla legge», corrispondente all’età per il pensionamento di vecchiaia, mentre le altre tipologie di pensione sarebbero nella disponibilità del lavoratore e non dell’amministrazione (Trib. S. Maria Capua Vetere 13 luglio 2012; Trib. Ascoli Piceno 27 agosto 2013; Tar Lazio, sez. I quater, 7 marzo 2013, n. 2446; Tar Napoli, sez. II, 4 aprile 2013, n. 1763).
A smentire la lettura giurisprudenziale, tuttavia, interviene ora l’art. 2, comma 4, d.l. 101 del 2013, che interpreta autenticamente la norma dell’art. 24, comma 3, secondo periodo, nel senso «che il conseguimento da parte di un lavoratore dipendente delle pubbliche amministrazioni di un qualsiasi diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011 comporta obbligatoriamente l’applicazione del regime di accesso e delle decorrenze previgente rispetto all’entrata in vigore del predetto articolo 24». Si torna dunque alla circolare ministeriale: la maturazione del diritto a uno qualsiasi dei trattamenti pensionistici sottrae il pubblico dipendente al nuovo regime dei requisiti di accesso agli stessi.
L’effetto sostanziale è di precludere ai lavoratori che a quella data non avevano ancora 65 anni, ma erano titolari del diritto ad altro trattamento pensionistico, di continuare a lavorare almeno fino a 66 anni e, semmai, a 70. Detto altrimenti, ai lavoratori in possesso, al 31 dicembre 2011, dei requisiti di accesso a uno qualsiasi dei trattamenti pensionistici secondo le regole vigenti a quella data, non si applica la riforma Fornero e, dunque, non possono pretendere di prolungare il rapporto di lavoro fino al 66° anno di età.
Quanto all’altra disposizione, il Dipartimento della Funzione Pubblica, con la medesima circolare, ha negato ai pubblici dipendenti l’opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro fino a 70 anni, perché il comma 4, secondo periodo, d.l. n. 201 del 2011, tiene espressamente fermi i limiti ordinamentali per il collocamento a riposo. Per la gran parte dei lavoratori pubblici quel limite è fissato al 65° anno di età e risultava finora perfettamente coordinabile con il requisito anagrafico per l’accesso alla pensione di vecchiaia, inferiore o al più coincidente con esso. Sennonché oggi un tale requisito è stabilito in 66 e 3 mesi, ossia a un’età normalmente superiore a quel limite. Il che porta a dubitare della sua stessa sopravvivenza.
In effetti, da tempo la Corte Costituzionale (sentenza n. 282 del 1991) ha riconosciuto al lavoratore il diritto a rimanere in servizio anche oltre il limite ordinamentale, ma comunque non oltre 70 anni, al solo fine di maturare il requisito contributivo minimo per il diritto a pensione. Si tratta, tuttavia, di una deroga alla disciplina generale, a garanzia degli interessi costituzionalmente rilevanti coinvolti nella situazione. Ora, invece, la deroga diverrebbe regola generale. Una soluzione palesemente irrazionale, che si scontra altresì con una possibile lettura alternativa della legge, per la quale manterrebbero vigore soltanto le disposizioni che prevedono il collocamento a risposo ad età superiori a 66 anni (e 3 mesi), come nel caso dei magistrati o dei professori universitari.
Peraltro, a fornire una base normativa alla posizione ministeriale ha provveduto la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 2, comma 5, d.l. n. 101 del 2013, secondo cui «per i lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni, il limite ordinamentale […] non è modificato dall’elevazione dei requisiti anagrafici previsti per la pensione di vecchiaia e costituisce il limite non superabile […] al raggiungimento del quale l’amministrazione deve far cessare il rapporto di lavoro o di impiego se il lavoratore ha conseguito, a qualsiasi titolo, i requisiti per il diritto a pensione». Tanto prevedendo oggi la legge, è da escludere che il pubblico dipendente abbia diritto di restare al lavoro fino a 70 anni.
Non è detto, tuttavia, che la questione sia chiusa. Resta aperta, infatti, la via del controllo di costituzionalità, tanto sotto il profilo accennato della razionalità, quanto sotto quello dell’effettiva natura interpretativa della norma.