Sulla Gazzetta Ufficiale n. 37 del 13 febbraio scorso è stato pubblicato il decreto del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con cui viene data attuazione alle disposizioni contenute all’art. 4, commi 24, 25 e 26 della legge n. 92 del 2012, finalizzate a “sostenere la genitorialità, promuovendo una maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’interno della coppia e per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”. Il provvedimento contempla due tipologie di interventi. Una è il congedo obbligatorio e facoltativo del padre, anche adottivo o affidatario, lavoratore dipendente, principalmente volta al sostegno della genitorialità e alla quale sono dedicati gli artt. 1, 2 e 3. L’altra, più rilevante e disciplinata agli artt. 4-9, guarda soprattutto alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e consiste nella corresponsione di voucher per l’acquisto di servizi di baby-sitting o per far fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati.



Di principio, si tratta di misure interessanti, perché rispondenti a reali esigenze che la maternità pone alle donne lavoratrici e, più in generale, alle famiglie, Peraltro, entrambe hanno carattere sperimentale, essendo previste soltanto per gli anni 2013-2015 e, per quanto riguarda i voucher, nel limite di 20 milioni di euro per ciascuna delle tre annualità. Questa caratteristica appare più accentuata nel caso del congedo: quello obbligatorio è, infatti, di un giorno, quello facoltativo al massimo di due, anche non continuativi. In altri termini, nulla più di un segnale, che il legislatore ha voluto offrire nonostante le ristrettezze di bilancio.



Ciò detto, entrambe le forme di congedo spettano con riferimento alle nascite avvenute a partire dal 1° gennaio 2013, devono essere fruite entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, previa comunicazione scritta al datore di lavoro con preavviso di almeno quindici giorni, non sono frazionabili a ore e danno diritto a un’indennità giornaliera, a carico dell’Inps, pari al 100% della retribuzione. Però, mentre il congedo obbligatorio è fruibile dal padre in aggiunta e anche durante il periodo di astensione obbligatoria della madre lavoratrice, quello facoltativo è alternativo.

Infatti, pur se godibile contemporaneamente all’astensione della madre, è condizionato alla scelta di questa di non fruire di altrettanti giorni del proprio congedo di maternità, con conseguente riduzione del suo termine finale, per un numero di giorni pari a quelli goduti dal padre. Per il solo congedo facoltativo, inoltre, l’art. 4, co. 24, l. n. 92 del 2012 è chiaro nel richiamare soltanto il periodo di astensione obbligatoria, di norma, spettante per i tre, ovvero, a scelta della donna, i quattro mesi successivi al parto. Esso, pertanto, dovrà essere generalmente fruito entro tali periodi temporali, ridotti rispetto ai cinque mesi, che restano termine finale valido in ipotesi particolari.



Il “contributo per l’acquisto dei servizi per l’infanzia”, invece, è alternativo al congedo parentale, che l’art. 32, d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, attribuisce, nel limite massimo di dieci mesi e per ciascun bambino nei primi otto anni di vita, a entrambi i genitori e, in particolare alla madre per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, a volte elevabile a sette. In luogo di questo, negli undici mesi successivi al termine del congedo di maternità la madre lavoratrice può richiedere il contributo (voucher), che è utilizzabile: a) per il servizio di baby-sitting; b) per far fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati (art. 4).

Oltre alle madri lavoratrici dipendenti, anche con contratto part-time, possono accedere al beneficio le lavoratrici con contratto di lavoro a progetto o, comunque, iscritte alle gestione separata dell’Inps di cui all’art. 2, co. 26, l. n. 335 del 1995 (art. 7). Inoltre, purché nel termine indicato, il contributo è richiedibile anche dalla lavoratrice che abbia già goduto di parte del congedo parentale (art. 4). Il beneficio è erogato per un massimo di sei mesi e il suo ammontare è di 300 euro mensili (art. 5). Abbastanza complesso, peraltro, si presenta il meccanismo operativo disegnato dal decreto e articolato sui due versanti delle beneficiarie dell’intervento, da un lato, degli erogatori dei servizi, dall’altro.

Partendo dalle prime, la madre lavoratrice deve presentare, mediante procedura informatica, apposita domanda all’Inps, indicando l’opzione prescelta fra le due sopra indicate e il numero di mesi in cui intende usufruirne, “con conseguente riduzione di altrettante mensilità di congedo parentale”, precisa la norma (art. 5). Tuttavia, “le domande dovranno essere presentate nel corso dello spazio temporale, unico a livello nazionale, i cui termini iniziale e finale saranno fissati dall’Inps, che provvederà a darne adeguata, preventiva comunicazione attraverso i canali informativi disponibili” (art. 6, co. 2). E al bando, si precisa, possono partecipare le lavoratrici i cui figli siano già nati entro il termine di scadenza e anche quelle per le quali la data presunta del parto sia fissata entro quattro mesi da tale scadenza.

È probabile che in tal modo si verifichi un duplice effetto selettivo tra soggetti nell’identica condizione di bisogno, ossia le madri, in correlazione all’ampiezza temporale di apertura del bando, da un lato, alla data di nascita del figlio, dall’altra. Questo, almeno nel 2013, per le due annate successive essendo consentito all’ente previdenziale di “valutare un eventuale frazionamento delle procedure di ammissione ai benefici”, cui corrisponde il frazionamento delle risorse.

In ogni caso, l’accesso al beneficio è riconosciuto nei limiti delle risorse stanziate per ciascuno degli anni di sperimentazione e in base a una graduatoria unica a livello nazionale, predisposta sulla base dell’Indicatore di situazione economica equivalente del nucleo familiare di appartenenza (Isee). Peraltro, il beneficio non può essere concesso in relazione a figli per i quali si è totalmente esentati dal pagamento della retta nei servizi per l’infanzia pubblici o accreditati, ovvero si usufruisce dei benefici concessi dal Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità, di cui all’art. 19, d.l. n. 223 del 2006. La condizione di esenzione, pertanto, preclude alla madre lavoratrice anche l’opzione per i servizi di baby sitting.

Quanto agli operatori, il decreto prevede il ricorso ai buoni lavoro di cui all’art. 72, d.lgs. n. 276 del 2003 per il servizio di baby-sitting, mentre per le strutture per l’infanzia pubbliche o accreditate si provvederà tramite pagamento diretto alla struttura prescelta (art. 5). A tal fine, l’ente previdenziale deve istituire un elenco cui tali strutture potranno iscriversi, renderlo liberamente consultabile sul proprio sito istituzionale, aggiornarlo, nonché integrarlo con la procedura informatica di domanda delle madri lavoratrici, onde consentire a queste di scegliere la struttura, previa verifica della disponibilità di posti (art.8).

Peraltro, per la pratica attuazione del provvedimento, occorrerà attendere gli adempimenti dell’Inps, chiamato a un lavoro organizzativo, tanto più complesso in quanto il beneficio non è generalizzato, ma di carattere selettivo in ragione del limite delle risorse. Questo, invero, conforma la disciplina, anche sul piano della situazione soggettiva attribuita alla madre lavoratrice. Non a caso la legge ha accuratamente evitato qualsiasi concessione formale alla possibilità di riconoscere un “diritto” al contributo, al punto di esplicitare la natura “non regolamentare” del decreto esaminato.

In tempi di vacche magre è facilmente comprensibile un maggior ricorso a quel limite. Del modello di azione pubblica/statale che esso sottintende, tuttavia, non possono nascondersi la difficile conciliabilità con il riconoscimento costituzionale di veri e propri diritti (sociali) in materia di welfare, nonché le potenziali ricadute pregiudizievoli in termini di (dis)eguaglianza o, comunque, di discriminazione tra i cittadini (e non solo), di disgregazione della coesione sociale e di accentuazione della condizione di “sudditanza” da un potere pubblico “elargitore di benefici”.

La crisi urge soluzioni in un orizzonte temporale e finanziario ravvicinato, ma offre anche l’occasione per ripensare organicamente e nel lungo periodo il nostro sistema di welfare e la stessa forma di Stato. Speriamo di non sprecarla.