Sebbene criticato, per molti versi non a torto, da più parti come tipologia di lavoro dagli incerti confini, per questo generatrice di incertezze e di conseguente contenzioso, il lavoro a progetto continua per ora a resistere a ogni ipotesi di sua drastica eliminazione dal sistema, giacché, per comune opinione, pur se in modo imperfetto diremmo, è ritenuto idoneo a soddisfare peculiari esigenze che emergono nel mercato del lavoro. Confermata la sua presenza per ora stabile nel sistema, l’istituto ha subito lievi ritocchi a opera del cosiddetto “decreto lavoro” (D.L. 28 giugno 2013, n. 76) – dedicato anche alla rimodulazione di alcune norme della cosiddetta legge Fornero sul mercato del lavoro (L. n. 92 del 2012) – sul quale in questi giorni è iniziato l’esame al Senato per la sua conversione in legge (Atto Senato n. 890). Si tratta di due interventi “diretti”, in relazione alle caratteristiche e alla forma del contratto, interessato anche da due ulteriori disposizioni in tema di estensione a tale figura della disciplina in materia di dimissioni e di solidarietà negli appalti già prescritta per il lavoro subordinato.
Per contestualizzare il discorso dobbiamo ricordare che il lavoro a progetto, come noto, è stato delineato e regolato per la prima volta quale fattispecie compiuta nell’ambito della cosiddetta legge Biagi sul mercato del lavoro del 2003 (artt. 61-69, d.lgs. n. 276 del 2003) e più di recente quella normativa ha subito importanti modifiche a opera della legge Fornero, in gran parte segnate dall’esigenza di restringere gli ambiti di legittimo utilizzo di tale tipologia contrattuale, al fine di circoscrivere i diffusi abusi registratisi in questi anni, animati dall’intento principale di mascherare attraverso questa forma di lavoro autonomo, per molti versi meno costosa, rapporti di lavoro in realtà subordinati.
Le modifiche apportate dalla legge Fornero hanno suscitato in verità, anche in relazione a questo particolare ambito, più critiche che consensi, tese a stigmatizzare una tendenziale “eutanasia” dell’istituto stretto da regole troppo ferree, che avrebbero finito con l’impedirne un suo fisiologico utilizzo. Nella prospettiva di un parziale ripensamento di quelle norme, il decreto legge interviene a modificare innanzitutto una delle regole introdotte dalla legge Fornero. In quella sede il legislatore aveva stabilito, nella prospettiva restrittiva cui abbiamo accennato, di modificare l’originario art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2003, introducendo la regola per cui “il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi, che possono essere individuati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” (art. 61, primo comma, ultimo periodo, d.lgs. n. 276 del 2003, nel testo modificato dall’art. 1, comma 23, lett. a), L. 28 giugno 2012, n. 92). Il decreto legge dispone ora sul punto che “all’articolo 61, comma 1, le parole: «esecutivi o ripetitivi» sono sostituite dalle seguenti: «esecutivi e ripetitivi»” (art. 7, secondo comma, lett. c), d.l. n. 76 del 2013). Si tratta di sostituire la disgiuntiva “o” con la congiunzione “e”, sicché ora il divieto si riferisce allo svolgimento di compiti insieme “esecutivi e ripetitivi”.
L’effetto della modifica si risolve così in un sostanziale restringimento delle ipotesi vietate, che risultano quelle connotate appunto dalla svolgimento di compiti insieme “esecutivi e ripetitivi” con parallelo allargamento dello spettro di quelle consentite. Sul punto avevo già osservato (P. Passalacqua, La nuova disciplina del lavoro autonomo e associato. Ed. Utet, Torino, 2012, pag. 77 e ss.) che il requisito dei “compiti meramente esecutivi e ripetitivi”, evocante attività di basso contenuto professionale, risultasse del tutto estraneo alla struttura del lavoro subordinato, tanto da non poter essere ritenuto di per sé elemento decodificante e differenziante tra una prestazione di lavoro autonoma e una di lavoro subordinato. La nuova formula mantiene il criticabile limite, ma al contempo ne circoscrive il raggio di azione, giacché non è detto che una determinata attività sebbene ritenuta ripetitiva sia al contempo anche meramente esecutiva e così il contrario. Da questo punto di vista anche le esemplificazioni di compiti ritenuti meramente esecutivi offerta dalla Circolare ministeriale n. 29 del 2012 pare possano essere messe in discussione in sede di interpretazione giurisprudenziale.
Un secondo intervento ha interessato la forma del contratto di lavoro a progetto. L’originaria normativa, non toccata sul punto dalla legge Fornero, disponeva che “il contratto di lavoro a progetto è stipulato in forma scritta e deve contenere, ai fini della prova, i seguenti elementi: …” (art. 62, primo comma, d.lgs. n. 276 del 2003). Il decreto legge dispone ora sul punto che “all’articolo 62 sono eliminate le seguenti parole: «ai fini della prova»” (art. 7, secondo comma, lett. d), d.l. n. 76 del 2013), sicché sembra che ora per tutti gli elementi necessari del contratto debbano essere previsti in forma scritta ad substantiam.
La norma da un lato va apprezzata, in quanto pare consentire di risolvere una serie di interrogativi relativi alla corretta latitudine da attribuire al requisito di forma, richiesto prima solo ad probationem, e, quindi, operante solo nel processo. Dall’altro si aprono a questo punto altri interrogativi rilevanti circa gli effetti della violazione della forma scritta, anche solo in relazione ad alcuno degli elementi necessari prescritti dalla norme, ovvero l’indicazione della durata, la descrizione del progetto, il corrispettivo, le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente (art. 62, d.lgs. n. 276 del 2003).
Il tema è molto complesso, tanto che in questa sede si può solo osservare come resti difficile sostenere che dalla mancanza di anche uno solo di questi elementi possa discendere la nullità del contratto di lavoro a progetto e la sua “conversione” in contratto di lavoro subordinato. Suffragano tale lettura da un lato la mancanza di una espressa previsione che imponga la forma scritta “a pena di nullità” come, invece, imposto dall’art. 1325, n. 4, c.c., per considerarla requisito essenziale del contratto e dall’altro che la suddetta “conversione” è espressamente prevista per il caso di mancata individuazione di uno specifico progetto come individuato nell’art. 61, primo comma (art. 69, primo comma, d.lgs. n. 276 del 2003), senza, quindi, specifico richiamo all’art. 62 sui requisiti di forma.
Quanto poi alle norme che non toccano le disposizioni vigenti sul lavoro a progetto, ma lo interessano comunque, da un lato, come anticipato, si tratta dell’estensione anche al lavoro a progetto della tutela in caso di dimissioni. Sul punto il decreto dispone una modifica all’art. 4, della l. n. 92 del 2012, nel senso che “dopo il comma 23, è inserito il seguente: «23-bis. Le disposizioni di cui ai commi da 16 a 23 trovano applicazione, in quanto compatibili, anche alle lavoratrici e ai lavoratori impegnati con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, di cui all’articolo 61, comma 1, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e con contratti di associazione in partecipazione di cui all’articolo 2549, secondo comma, del codice civile»”; (art. 7, quinto comma, lett. d), n. 1, d.l. n. 76 del 2013).
Il sistema delineato dai citati commi da 16 a 23 dell’art. 4 della legge Fornero prevede una tutela peculiare del lavoratore in caso di dimissioni, al fine di impedire comportamenti fraudolenti da parte del datore di lavoro, quali, ad esempio, il deprecabile fenomeno delle cosiddette “dimissioni in bianco”. In sintesi, le dimissioni per essere considerate valide devono essere convalidate presso un soggetto terzo rispetto alle parti del rapporto di lavoro (a seconda dei casi: servizio ispettivo del Ministero del lavoro, Direzione territoriale del lavoro o il Centro per l’impiego territorialmente competenti, ovvero presso le sedi individuate dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, v. art. 4, commi 16 e 17, l. n. 92 del 2012). In alternativa, è richiesta la sottoscrizione di apposita dichiarazione della lavoratrice o del lavoratore apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro (art. 4, comma 18, l. n. 92 del 2012). La legge poi prescrive le modalità di adempimento e le conseguenze del mancato rispetto di tali obblighi (art. 4, commi da 19 a 23, l. n. 92 del 2012).
L’espressa applicazione di tale sistema anche, tra l’altro, al caso del recesso del collaboratore nel contratto di lavoro a progetto appare opportuna, giacché la “induzione” alle dimissioni, qui recesso, sono un fenomeno che sussiste anche in relazione a tali forme di lavoro. Al fine di giustificare un simile interevento, occorre peraltro considerare che il fenomeno, a cui il legislatore vuole porre argini, potrebbe subire una incrementale diffusione proprio in virtù delle limitazioni alla facoltà di recesso da parte del committente, introdotte dalla legge Fornero, che non legittimano più il committente a recedere dal rapporto con il collaboratore a progetto con il solo onere del preavviso. Ora, invece, oltre all’ipotesi della giusta causa di recesso, il committente può legittimamente recedere ante tempus dal rapporto di lavoro a progetto soltanto “qualora siano emersi oggettivi profili di inidoneità professionale del collaboratore tali da rendere impossibile la realizzazione del progetto” (art. 67, secondo comma, d.lgs. n. 276 del 2003, come modificato dall’art. 1, comma 23, lett. e), L. 28 giugno 2012, n. 92).
Infine, l’ultima disposizione che interessa il lavoro a progetto è quella sull’estensione della disciplina della solidarietà negli appalti, dettata dalla legge Biagi, per cui, salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore “in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento” (art. 29, primo comma, d.lgs. n. 276 del 2003).
Sul punto il decreto lavoro dispone che “le disposizioni di cui all’articolo 29, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e successive modificazioni, trovano applicazione anche in relazione ai compensi e agli obblighi di natura previdenziale e assicurativa nei confronti dei lavoratori con contratto di lavoro autonomo” (art. 9, primo comma, d.l. n. 76 del 2013).
L’ampia formulazione della norma consente facilmente di ritenere che nell’insieme del lavoro autonomo possa e debba essere ricompreso il contratto di lavoro a progetto. Tale ultima disposizione risulta apprezzabile e contribuisce a dirimere e risolvere i dubbi sorti in precedenza proprio sull’ambito di applicazione dell’istituto, ponendosi in linea con la tendenza generale tesa al riconoscimento, ove possibile, ai lavoratori autonomi delle tutele già riconosciute ai lavoratori subordinati.