Com’è noto, il nostro ordinamento giuridico consente il licenziamento per giusta causa qualora il lavoratore abbia posto in essere un comportamento talmente grave da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto. In questo caso il datore di lavoro, dopo aver rispettato un rigoroso iter procedurale nel quale è tenuto a contestare per iscritto gli addebiti e ad attendere le eventuali giustificazioni del lavoratore, può recedere dal rapporto senza dare alcun preavviso e senza essere obbligato a utilizzare il lavoratore in un’altra posizione (il cosiddetto repechage). Ove la “giusta causa” non sia ritenuta sussistente, è prevista la reintegrazione ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori o alternativamente – per le aziende occupanti meno di 16 dipendenti – la tutela economica stabilita dall’art. 2 L. 108/90.



Nel corso degli anni la giurisprudenza – pur con notevoli oscillazioni – ha ritenuto passibili di licenziamento per giusta causa fatti e comportamenti di estrema gravità tra cui il danneggiamento intenzionale di beni aziendali, l’abbandono repentino e protratto del posto di lavoro, la simulazione della malattia, l’insubordinazione grave nei confronti del datore di lavoro, la commissione di furti o altri reati sul posto di lavoro (anche se – come meglio diremo dopo – il furto di beni aziendali di “modico valore” è stato da talune sentenze ritenuto insufficiente a legittimare il licenziamento per giusta causa), la grave violazione dei doveri di fedeltà e di riservatezza, le (gravi) ingiurie al datore di lavoro, l’aggressione fisica a colleghi sul posto di lavoro. La giurisprudenza in questi casi ammette il licenziamento a fronte di condotte tali da minare irreparabilmente il rapporto fiduciario tra il lavoratore e il datore di lavoro; e distingue la fattispecie della “giusta causa” da quella del “giustificato motivo soggettivo” che consente il licenziamento con preavviso nei casi di minor gravità dei fatti commessi dal lavoratore.



Al riguardo la giurisprudenza, e talora i contratti collettivi, hanno ritenuto sussistente il giustificato motivo soggettivo di licenziamento nei casi di assenza ingiustificata fino a quattro giorni (sussistendo la giusta causa in caso di assenza maggiormente protratta: Cass. 7390/2013), di furto di un bene aziendale di modico valore, come ad esempio un paio di scarpe (Trib. Ravenna 18.3.2013), di “semplice” insulto al datore di lavoro o a un proprio superiore, laddove invece l’aggressione fisica integra la fattispecie della giusta causa (Cass. 8351/2011 e Trib. Milano 2.3.2013).

Forse non è invece noto ai più che il lavoratore licenziato per giusta causa, nonostante abbia perso il posto di lavoro per una condotta gravissima e in alcuni casi penalmente rilevante, ha comunque diritto all’indennità di disoccupazione (ora ridenominata “Aspi” e “mini-Aspi”). L’Assicurazione sociale per l’impiego (Aspi), introdotta dall’art. 2 della legge 92/2012 (la cosiddetta riforma Fornero), prevede infatti quali unici requisiti per l’erogazione del trattamento lo stato di disoccupazione “involontario” (oltre a un periodo minimo di contribuzione). Stante quindi le disposizioni di legge, tutti i lavoratori hanno diritto a percepire la prestazione, indipendentemente dalla motivazione che ha originato il licenziamento. In altri termini, ai fini delle prestazioni Inps è del tutto irrilevante che il lavoratore sia stato licenziato per motivi economici, per crisi aziendale, ovvero per aver rubato in azienda o percosso un superiore gerarchico.



Non solo. La Legge 228/2012 (legge di stabilità 2013), modificando il comma 31 dell’art. 2 della legge 92/2012, ha previsto una sorta di “penale” da versare all’Inps da parte dei datori di lavoro in caso di licenziamento al fine di finanziare il trattamento previdenziale di disoccupazione. Ebbene, secondo la L. 228/2012 e la Circolare Inps n. 41/2013 tale “contributo”, che ammonta all’importo di euro 1.451 per i lavoratori con oltre tre anni di servizio, è dovuto anche nell’ipotesi di giusta causa; il che addossa sul datore di lavoro (che ha già subito pregiudizi e disagi derivanti da fatti gravemente illeciti commessi dal dipendente che ne hanno comportato il licenziamento “in tronco”) un onere ulteriore difficilmente giustificabile.

Mette conto segnalare altresì che il Decreto legge approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri lo scorso 26 giugno (e non ancora convertito in legge), modificando l’art. 2 co. 10 della Legge Fornero, ha previsto a favore dei datori di lavoro che assumano a tempo indeterminato lavoratori beneficiari del trattamento “Aspi” un contributo mensile pari al 50% dell’indennità residua che sarebbe stata corrisposta al lavoratore dall’Inps. La norma fa generico riferimento ai lavoratori “licenziati”, senza ulteriori specificazioni in merito alla motivazione del recesso. Anche in questo caso, dunque, il lavoratore licenziato per giusta causa potrà godere degli stessi incentivi finalizzati alla futura assunzione concessi ai lavoratori disoccupati per motivi diversi.

Ora, se la tutela previdenziale indifferenziata dell’Inps a prescindere dal motivo della “disoccupazione” può essere semplicemente discutibile – apparendo forse più razionale prevedere a favore del lavoratore licenziato per giusta causa un trattamento di disoccupazione “ridotto”- sembra paradossale caricare sul datore di lavoro una “tassa” per aver (legittimamente) licenziato un proprio dipendente… responsabile di un furto ai danni dell’azienda, di un’aggressione o di altre gravissime mancanze.

Ciò vale a fortiori in questi tempi, in cui si fa un gran parlare – bipartisan – di riduzione del costo del lavoro e di recupero della competitività del nostro Paese anche sul piano internazionale. Ebbene, come si fa a spiegare agli investitori esteri questa “tassa sulla giusta causa”? L’auspicio è che questo balzello possa essere ripensato, meglio se con devoluzione delle risorse eventualmente recuperate a favore di lavoratori disoccupati più meritevoli di tutela.