Uno dei molteplici obiettivi dell’attuale Governo, è la riforma dei servizi per il lavoro – o per l’impiego – e delle politiche attive (del lavoro). Lo ricordava qualche giorno fa Massimo Ferlini condividendo da queste pagine l’opzione per la costituzione di una “Agenzia nazionale per l’occupazione” (da ora Agenzia), partecipata da Stato, regioni e province autonome e vigilata dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali. Personalmente non sono così convinto della bontà della scelta, almeno quale risulta dall’insieme delle proposte governative presentate al Parlamento. Tralasciando il decreto legge n. 34 del 20 marzo scorso, d’immediata vigenza, ma irrilevante ai nostri fini, si tratta di due disegni di legge presentati al Senato, l’uno, il n. 1429, di carattere costituzionale e riguardante, tra l’altro, il superamento del bicameralismo paritario e la revisione del Titolo V della Costituzione; l’altro, il n. 1428, costituisce il secondo spezzone del cosiddetto Jobs Act e contiene, tra l’altro, una delega in “materia di servizi per il lavoro e politiche attive”. Per comprendere l’opzione governativa i due vanno letti in modo coordinato e collocati in un più ampio quadro normativo, che tenga conto dell’attuale riparto di competenze legislative tra Stato e regioni, nonché dell’art. 5, d.l. 28 giugno 2013, n. 76.

Quanto al primo si deve ricordare che le regioni sono attualmente titolari di una competenza legislativa in materia di “tutela e sicurezza del lavoro” che le abilita, nel rispetto dei principi fondamentali posti dalla legge statale, a disciplinare i meccanismi di incontro tra domanda e offerta di lavoro e in particolare i servizi per l’impiego o per il lavoro. Le leggi statali di riferimento sono: il d.lgs. n. 181 del 2000, che definisce lo stato di disoccupazione e i compiti del servizio pubblico, prevedendo, tra l’altro, i livelli essenziali delle prestazioni da garantire ai disoccupati; il d.lgs. n. 276 del 2003 che struttura il mercato del lavoro attorno a due poli distinti, il servizio pubblico e gli operatori privati, autorizzati all’esercizio di alcune attività tipizzate, prospettando la possibilità, rimessa alle scelte regionali, che questi e altri soggetti svolgano anche le funzioni proprie del servizio pubblico.

Di fatto, poche regioni, quasi tutte dell’Italia settentrionale, hanno sfruttato questa opportunità per riformare il sistema dei servizi per l’impiego. La critica prevalente, con qualche ragione, indica nel particolarismo normativo e nella mancanza di un coordinamento unitario (nazionale) delle politiche del lavoro la, o una delle, causa/e di inefficienza del sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro. L’alternativa sarebbe l’Agenzia nazionale di cui si è detto. Già adombrata nella riforma Fornero (l. n. 92/2012), la strada verso questa soluzione è stata aperta dalla Raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea dell’aprile 2013, che prevede e finanzia l’attivazione, a livello dei singoli stati, di un sistema (Garanzia giovani) atto a garantire a tutti i giovani di età inferiore a 25 anni un’offerta qualitativamente valida di lavoro, prosecuzione degli studi, apprendistato o tirocinio, entro quattro mesi dell’inizio della disoccupazione o dall’uscita dal sistema scolastico.

A tal fine, la Raccomandazione chiede sostanzialmente che il livello di governance del sistema sia unico e unitario. Perciò, l’art. 5, d.l. n. 76/2013, ha istituito presso il ministero del Lavoro un’apposita struttura di missione con compiti quali: definire le linee-guida nazionali per la programmazione degli interventi di politica attiva inerenti la Garanzia giovani; individuare le migliori prassi, promuovendone la diffusione e l’adozione fra i diversi soggetti operanti per realizzazione dei medesimi obiettivi. Si tratta, in sostanza, di una sperimentazione dell’Agenzia nazionale.

Su questo quadro si innestano i due disegni di legge richiamati. Quello di riforma costituzionale, per quanto d’interesse, sopprime le competenze legislative concorrenti delle regioni e, nel nostro caso, attribuisce allo Stato la potestà sulle “norme generali per la tutela e sicurezza del lavoro” (art. 26). L’art. 2, del ddl n. 1428 contiene la delega sui servizi per il lavoro tra i cui criteri direttivi figurano: a) la costituzione di un’Agenzia nazionale per l’occupazione, partecipata da Stato, regioni e province autonome, al cui funzionamento si provvede con le risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili a legislazione vigente; b) assegnazione alla stessa delle competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e Aspi; c) razionalizzazione degli enti e uffici a livello ministeriale (leggi Isfol e Italia Lavoro) e territoriale che operano in materia di politiche attive del lavoro, servizi per l’impiego; d) mantenimento in capo alle regioni e alle province autonome delle competenze in materia di programmazione delle politiche attive del lavoro; e) valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati, al fine di rafforzare le capacità d’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Se mettiamo insieme queste indicazioni, cosa emerge? Le regioni sembrano in sostanza private di qualsiasi potere legislativo ben oltre la situazione esistente prima della riforma costituzionale del 2001: probabilmente non potranno nemmeno legiferare sugli incentivi economici, considerato che spetta loro solo di programmare le politiche attive. L’Agenzia, invece, è costituita senza costi aggiuntivi, cioè senza visione di sviluppo, come puro collettore delle risorse umane e non degli enti strumentali del ministero del Lavoro e degli attuali centri per l’impiego, mentre la gestione partecipata suppone una condivisione delle scelte facilmente compromissoria e condizionata dalle accennate diversità territoriali, che rischia di penalizzare le regioni virtuose. Che dire, ad esempio, del rapporto pubblico-privato ignorato dalla maggior parte delle regioni?

Le ombre non sono poche. Le possibilità di miglioramento però ci sono, dato che la discussione parlamentare dei provvedimenti non è neppure iniziata.