La critica rivolta nei confronti del proprio datore di lavoro è ammissibile, ma a condizione che sia esercitata entro i parametri della correttezza e della buona fede. Se poi la critica proviene da chi ricopre la qualifica di dirigente, occorre fare molta attenzione: una posizione di radicale contrasto con le direttive aziendali può addirittura costare il posto di lavoro. Lo ha stabilito la Cassazione con una recente sentenza del 17 marzo 2014 n. 6110.
È bene ricordare che al rapporto di lavoro dirigenziale non si applica la disciplina sui licenziamenti individuali prevista dalla legge n. 604/1966 (fatto salvo l’onere di comunicare il licenziamento in forma scritta) e dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (fatta salva l’ipotesi del licenziamento discriminatorio). Il licenziamento del dirigente è disciplinato invece dalle norme del codice civile e dalle norme stabilite dalla contrattazione collettiva di categoria; e ciò in considerazione del particolare vincolo fiduciario che connota il rapporto di lavoro dirigenziale.
In particolare, l’art. 2119 del codice civile prevede la possibilità di licenziare il prestatore di lavoro (dirigente compreso) per “giusta causa”; vale a dire, per una causa che non consenta la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro. La contrattazione collettiva di categoria stabilisce invece la misura del periodo di preavviso spettante al dirigente licenziato senza giusta causa; e per il caso in cui il recesso sia privo non soltanto di giusta causa ma anche di “giustificatezza” riconosce al dirigente il diritto a una indennità supplementare, che varia da un minimo a un massimo, tenuto conto anche dell’anzianità di servizio e dell’età anagrafica.
Solo in caso di licenziamento discriminatorio, il dirigente ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno commisurato all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative; e in ogni caso, in misura non inferiore a cinque mensilità).
Ma quando il licenziamento del dirigente è “giustificato”? In mancanza di una definizione e di una casistica di dettaglio da parte della contrattazione collettiva di categoria, occorre necessariamente rifarsi alla giurisprudenza, la quale ritiene che la nozione convenzionale di “giustificatezza” del licenziamento sia molto più ampia di quella di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo od oggettivo. Se la giusta causa del licenziamento è ravvisabile quando il lavoratore abbia posto in essere una condotta di gravità tale da non consentire la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro, e se il giustificato motivo è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, la nozione di giustificatezza si estende fino a ricomprendere qualsiasi motivo di recesso che ne escluda l’arbitrarietà, con i limiti del rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto e del divieto del licenziamento discriminatorio.
La giurisprudenza tende quindi a considerare privo di giustificatezza il licenziamento del dirigente non sorretto da alcun motivo ovvero sorretto da un motivo che si dimostri pretestuoso e quindi non corrispondente alla realtà, cosicché la ragione del recesso sia riconducibile unicamente all’intento del datore di lavoro di liberarsi della persona del dirigente. Stante l’ampiezza della nozione di giustificatezza del licenziamento, affermata dalla giurisprudenza, il dirigente deve prestare quindi molta attenzione quando si rivolge al proprio datore di lavoro, criticandone l’operato.
Il caso esaminato dalla Corte di Cassazione nelle sentenza n. 6110 del 17 marzo 2014 riguarda un dirigente, direttore generale di una società appartenente a un importante gruppo societario, il quale è stato licenziato per giusta causa per aver assunto “un atteggiamento di radicale opposizione alle gerarchie e direttive aziendali e di messa in discussione della posizione della nostra società all’interno del gruppo”. A ben vedere, il dirigente si era “limitato” a reagire a due circolari emanate a seguito di un riassetto organizzativo della società datrice di lavoro e della capogruppo. La prima delle due circolari introduceva limiti autorizzativi per le spese oltre un certo ammontare, per le quali veniva richiesta l’autorizzazione vincolante sia da parte di alcune figure appartenenti alla società datrice di lavoro, sia da parte dell’amministratore delegato della capogruppo. La seconda circolare specificava invece una procedura di redazione e diffusione di comunicati aziendali, subordinando la pubblicizzazione alla previa approvazione da parte di unità organizzative della capogruppo.
Alle due circolari il dirigente aveva reagito, indirizzando al presidente della società una prima lettera con la quale chiedeva precisazioni, dichiarando che i provvedimenti comportavano di fatto un esautoramento dei poteri conferiti al dirigente dal consiglio di amministrazione e insiti nella sua qualifica di direttore; quindi, dopo una risposta interlocutoria da parte del presidente, il dirigente aveva inoltrato una lettera ulteriore con cui affermava testualmente: “Contesto formalmente la legittimità della circolare, che vanifica i poteri già conferitimi, in qualità di direttore generale della società. Il tenore della medesima circolare costituisce preordinato esautoramento di tutte le mie attribuzioni e pertanto La diffido all’ufficiale revoca della circolare ed alla conseguente reintegrazione nelle mie mansioni con avvertimento che, in difetto, sarò costretto a tutelare i miei interessi nelle opportune sedi”. Di qui il licenziamento per giusta causa intimato dalla società e impugnato dal dirigente.
Il Tribunale adito ha rigettato il ricorso proposto dal dirigente. La Corte di Appello ha riformato parzialmente la sentenza di primo grado, affermando che il recesso dal rapporto con il dirigente non era sorretto da giusta causa ma era tuttavia giustificato; ha quindi riconosciuto al dirigente il diritto alla indennità sostitutiva del preavviso, ritendendo infondate le ulteriori pretese risarcitorie. Contro la sentenza della Corte di Appello hanno proposto ricorso per Cassazione sia il dirigente che la società.
Con la citata sentenza n. 6110 del 17 marzo 2014, la Corte di Cassazione ha rigettato entrambi i ricorsi. In particolare, la Cassazione ha ritenuto esente da qualsiasi censura la valutazione effettuata dalla Corte di Appello circa il difetto di una giusta causa di licenziamento, “sul rilievo che il comportamento del dirigente si esauriva nell’espressione di una critica e nella minaccia di fare ricorso ad una competente autorità”. Nel contempo, i giudici di legittimità hanno confermato la sussistenza della giustificatezza del recesso, evidenziando che il comportamento complessivo del dirigente e la modalità di reazione, definita dai giudici “assolutamente oppositiva”, ponevano il dirigente in rotta di collisione con il datore di lavoro, così da turbare il vincolo di fiducia, particolarmente intenso per gli ampi poteri di impulso, direzione e di orientamento attributi al dirigente stesso nella struttura organizzativa aziendale.