Il mitico articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, più volte modificato dal legislatore (da ultimo con la cosiddetta riforma Fornero) continua a far discutere non solo con riguardo alla sua utilità sostanziale, ma anche in relazione alla sua interpretazione, registrando revirement giurisprudenziali anche piuttosto sorprendenti, come dimostra la recentissima sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 18353 del 27 agosto 2014.



Come noto, l’articolo 18 nel testo modificato dalla legge n. 108 del 1990 prevedeva che in caso di licenziamento illegittimo intimato da imprese che superassero la soglia occupazionale di 15 dipendenti nello stesso Comune, il lavoratore potesse chiedere entro 30 giorni, in luogo della reintegrazione, un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto. Orbene, si è posto sin da subito un contrasto, anche giurisprudenziale, sul momento di effettiva cessazione del rapporto di lavoro a seguito dell’opzione per il pagamento delle 15 mensilità. Da una parte, infatti, vi era chi riteneva che il rapporto di lavoro si estinguesse solo con il pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione e che, dunque, fossero dovute al lavoratore tutte le retribuzioni maturate dal licenziamento all’effettivo pagamento dell’indennità sostitutiva (ex plurimis Cass. 11609/2003, Cass. 6342/2009 e Cass. 6735/2010). Tale orientamento, che trovava autorevole avvallo dalla Corte Costituzionale (sent. n. 81 del 4 marzo 1992) e che quindi si affermava come maggioritario fino ad alcuni anni orsono, destava da più parti rilievi critici che evidenziavano con varie argomentazioni come non si potesse più configurare un rapporto di lavoro ove fosse venuto meno il principio del sinallagma contrattuale per decisione del (l’ex) dipendente.



D’altra parte è emerso un orientamento più recente (Cass. 15869/2012, Cass. 16228/2012 e Cass. 1810/2013) che ha ritenuto che il rapporto di lavoro cessasse al momento della richiesta di pagamento delle 15 mensilità e che in caso di mora debendi fossero dovuti al lavoratore gli interessi e la rivalutazione monetaria (e dunque non le retribuzioni medio tempore maturate). In questo caso, quindi, il ritardato adempimento del datore di lavoro era regolato dalla disciplina relativa all’inadempimento dei crediti pecuniari spettanti al lavoratore ex art. 429 c.p.c.

Peraltro non sono mancate sentenze che, collocandosi in una posizione “intermedia” tra i due filoni giurisprudenziali sopra enunciati, hanno ritenuto che il rapporto di lavoro si estinguesse al momento della richiesta del lavoratore di pagamento dell’indennità sostitutiva e che, nel contempo, al lavoratore sarebbero comunque spettate le retribuzioni maturate fino all’effettivo pagamento delle 15 mensilità (cfr. Cass. 24199/2009; Cass. 25233/2009 e Cass. 21044/2011).



Senonché anche tale orientamento non spiegava adeguatamente come potesse sopravvivere l’obbligazione retributiva una volta cessato il rapporto di lavoro. Di fronte a tali contrasti insorti nel corso di oltre un ventennio dall’introduzione della novella del 1990, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, chiamata a dirimere la questione, ha finalmente confermato il più recente orientamento giurisprudenziale, statuendo che nel caso di opzione per l’indennità sostitutiva il rapporto di lavoro cessa immediatamente, salvo il diritto agli interessi e alla rivalutazione monetaria in caso di ritardo nel pagamento.

Nell’ampia e articolata motivazione le Sezioni Unite hanno anche osservato che, al di là della disciplina della mora debendi, non è ipotizzabile un effetto dissuasivo dell’inadempimento, o del ritardo nell’adempimento, di un’obbligazione pecuniaria. Secondo le Sezioni Unite, l’obbligo risarcitorio presuppone la permanenza dell’illecito che invece nel caso prospettato difetta: una volta ritenuto infatti che il rapporto di lavoro si risolve con la comunicazione dell’opzione, l’illecito viene a mancare in quanto l’estromissione del lavoratore dall’azienda non è più conseguenza della volontà del datore di lavoro, ma al contrario consegue alla scelta del lavoratore. La Corte ha altresì osservato che l’unica norma con funzione di rafforzamento e di garanzia per gli obblighi di fare infungibile è l’art. 614 bis c.p.c. dalla quale tuttavia sono stati espressamente esclusi i rapporti di lavoro subordinato.

Va peraltro segnalato che, a risolvere i contrastanti giudicati per i licenziamenti intimati dopo il 2012, è finalmente intervenuta la “legge Fornero” (L. n. 92/2012) che ha finalmente chiarito che il rapporto di lavoro si risolve con la richiesta di pagamento delle 15 mensilità e ha introdotto per la sua proposizione il termine di 30 giorni decorrente dalla comunicazione del deposito della sentenza o, se anteriore, dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio.

In questa occasione il legislatore, sia pur con ritardo, si è riappropriato di una potestà normativa sua propria, sottraendola ai mutevoli e cangianti orientamenti giurisprudenziali. Vi è da auspicare che la medesima chiarezza venga fatta anche a riguardo di altri delicati temi controversi della legislazione del lavoro a beneficio della chiarezza e, a ben vedere, della competitività e della stessa ragionevolezza del nostro sistema giuridico.