L’obbligo di fedeltà che ogni lavoratore dipendente è tenuto a rispettare gli impone vincoli anche nella conduzione della vita privata? La Corte di cassazione, con la sentenza 9 gennaio 2015 n. 144, conferma di sì. E lo fa con riferimento a un’ipotesi nella quale il comportamento censurato sembrerebbe privo di qualsiasi nesso con il rapporto di lavoro: l’azienda, infatti, lo aveva licenziato perché aveva svolto troppa attività sportiva!

L’illogicità della decisione, però, è solo apparente. La sentenza, infatti, riferisce essere stato “ampiamente dimostrato che nel periodo contestato il N.P., senza riferire alcunché al datore di lavoro, aveva continuato a svolgere una pratica sportiva del tutto incompatibile con le sue condizioni fisiche, creando le condizioni per il rischio di aggravamento delle condizioni stesse”. Tale comportamento è stato considerato “grave ed irrimediabilmente lesivo del rapporto fiduciario con l’azienda, posto che proprio in ragione delle condizioni di salute il datore di lavoro aveva assegnato al N.P. mansioni ridotte e diverse da quelle precedentemente svolte, sopportando un inevitabile danno dal punto di vista dell’efficienza produttiva ed organizzativa”.

Ecco il nesso con il rapporto di lavoro: quella pratica “esagerata” dello sport pregiudicava, di fatto, il recupero dell’efficienza fisica necessaria per lavorare; addirittura ponendosi in contrasto con le misure che la stessa impresa aveva adottato (doverosamente, ma anche con inevitabili costi) per tutelare la sua salute. La Corte, in tal modo, ha ribadito il principio per il quale “l’obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dall’art. 2105 cc, dovendo integrarsi con gli artt. 1175 e 1375 c.c, che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro (cfr. Cass. 18.6.2009 n. 14176)”.

Dunque, “in tema di licenziamento per violazione dell’obbligo di fedeltà, il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 cc, ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa, ivi compresa la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente produttiva di danno (v. Cass. 4.4.2005 n. 6957, Cass. 1.2.2008 n. 2474, Cass. 18.06.2009 n. 14176 e Cass. 16.02.2011 n. 3822)”.

Sulla base di quegli stessi principi la Cassazione ha confermato anche licenziamenti di lavoratori che, assenti per malattia, svolgevano attività lavorative pesanti che impedivano una celere guarigione: ad esempio, nel caso del lavoratore assente per una lombosciatalgia, sorpreso a trasportare pesanti bombole di gas (comportamento che, peraltro, nel caso di specie faceva dubitare della stessa esistenza della malattia).

Si rilevi, peraltro, che tale orientamento non appare affatto sbilanciato in danno del lavoratore. Rimane, infatti, acquisito, che egli può sempre svolgere, in orario extralavorativo, ogni altra attività, e dunque anche un altro lavoro, sempre che questo non arrechi ingiusto danno agli interessi del datore di lavoro (ad esempio, perché si tratta di attività in concorrenza), o non pregiudichi la corretta esecuzione della prestazione (come avviene nel caso preso in esame dalla sentenza n. 144; o come avverrebbe, ad esempio, in ipotesi di svolgimento di altra attività in orari notturni, tale da non consentire un recupero delle necessarie energie psico-fisiche). Ciò può avvenire anche durante l’assenza per malattia.

Ad esempio, l’operaio bloccato in casa da un infortunio agli arti inferiori, che non può svolgere le mansioni, per le quali gli è richiesto di operare in piedi presso la macchina utensile, ben potrebbe svolgere un’attività che non comporta un simile impegno, né pregiudica o rallenta la guarigione, quale, ad esempio, quella consistente nell’elaborare programmi con un computer. Insomma, il principio è quello per il quale è vietato ciò solo che in concreto è suscettibile di danneggiare il datore di lavoro.

Il principio, però, com’è facile immaginare, dà luogo a una casistica amplissima, con fattispecie talvolta singolari, che potrebbero dar luogo anche a valutazioni assai diverse, e quindi anche a giudizi contrastanti, nei quali fattori quali l’abilità dei difensori o la sensibilità del magistrato investito della causa possono assumere rilievo determinante. È, ad esempio accaduto, pochi anni fa, che la hostess di una nota compagnia aerea sia stata licenziata perché il suo ex-fidanzato, per farle dispetto, aveva diffuso nel web filmini pornografici, dei quali lei era protagonista. Il Tribunale del lavoro ha ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento, non scusandola neppure per il fatto che quel materiale, originariamente destinato a una fruizione, per così dire, “privatissima”, fosse stato diffuso a totale insaputa e anzi contro la stessa volontà dell’interessata, addirittura con comportamento di rilevanza penale.

Nell’occasione, infatti il giudice ha severamente stigmatizzato il comportamento della lavoratrice che, comunque, aveva “accettato il rischio” di consentire la creazione di materiale audiovisivo che, se conosciuto da terzi, avrebbe potuto gravemente danneggiare l’immagine del datore di lavoro. Un danno, peraltro, positivamente dimostrato dai difensori della società, i quali avevano fatto notare che, in Internet, ormai molti siti proponevano quel materiale, associando l’immagine della hostess al suo lavoro e alla compagnia per la quale operava. Una decisione da condividere? All’epoca ne discussi con un altro Giudice del lavoro, che – evidentemente di contrario avviso – al mio interrogativo rispose senza esitazioni: “Io l’avrei reintegrata!“.

L’aneddoto, al di là della vicenda in sé, conferma come la concreta applicazione dei principi generali (quelle che i giuristi chiamano “clausole generali” o “norme elastiche”), tra i quali certamente rientrano la correttezza, la buona fede, la fedeltà, sia suscettibile di condurre a valutazioni, e quindi a giudizi, assai diversi sulla stessa fattispecie.