Ai fini della legittimità del licenziamento, la malattia del lavoratore può rilevare di per sé, quando – ai sensi dell’art. 2110 del codice civile – sia stato superato il periodo massimo di conservazione del posto di lavoro previsto dalla contrattazione collettiva (il cosiddetto periodo di comporto), ma può anche rilevare per gli eventuali riflessi negativi che le assenze dal servizio possono determinare sulla prestazione lavorativa, rendendo quest’ultima non sufficientemente e proficuamente utilizzabile dal datore di lavoro; in questo caso, le assenze dal servizio, anche se incolpevoli e anche se non sia stato ancora superato il periodo di comporto, possono legittimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, se il datore di lavoro è in grado di fornire la prova della inutilizzabilità della prestazione. Lo aveva stabilito la Cassazione l’anno scorso con sentenza n. 18678 del 4.9.2014, alla quale era stato dato ampio risalto dalla stampa nazionale. E lo ho ribadito il Tribunale di Milano con la recente ordinanza n. 26212 del 19.9.2015, a sua volta ripresa da alcuni quotidiani on line.
Con la citata sentenza n. 18678/2014, la Cassazione aveva osservato anzitutto che il recesso del datore di lavoro dovuto a malattia del lavoratore è soggetto alle regole dettate dall’art. 2110 del codice civile, che prevalgono sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa e sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali. Ne consegue che il datore di lavoro, da un lato, non può recedere dal rapporto prima del superamento del periodo di comporto, e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo e/o della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa e non è necessaria nemmeno la prova dell’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (il cosiddetto obbligo di repechage).
La Cassazione ha rilevato tuttavia che le assenze del lavoratore dovute a malattia possono rilevare anche sotto un diverso profilo. In particolare, la Cassazione ha evidenziato che, per le modalità con cui si verificano, le assenze dal servizio possono dar luogo a una prestazione lavorativa “non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per la società, rivelandosi la stessa inadeguata sotto il profilo produttivo e pregiudizievole per l’organizzazione aziendale”. In questo caso, il datore di lavoro può essere legittimato a licenziare il lavoratore per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966.
Secondo la Cassazione, la sentenza di merito (contro la quale era stato proposto ricorso) aveva fatto corretta applicazione della legge, avendo accertato che, per le modalità con cui si verificavano (reiteratamente “a macchia di leopardo”, e costantemente agganciate ai giorni di riposo), le assenze incidevano negativamente sulle esigenze di organizzazione e di funzionamento dell’azienda, dando luogo a scompensi organizzativi. Di qui la legittimità del licenziamento, anche se non era stato superato ancora il periodo di comporto.
Analoga questione si è riproposta davanti al Tribunale di Milano, con riferimento al caso di un dipendente di una compagnia telefonica addetto a compiti di back office. Anche in quel caso, il dipendente aveva accumulato numerose assenze per malattia (808 giorni nell’arco di circa 1.500 giorni di lavoro), brevi e reiterate, costanti nel tempo e spezzettate, concentrate prevalentemente in periodi a ridosso di ferie, festività e giorni di permesso. Ritenuto che il numero e le caratteristiche delle assenze rendevano la prestazione del dipendente inadeguata sotto il profilo produttivo e organizzativo, l’azienda aveva deciso di licenziare il dipendente per giustificato motivo oggettivo, sulla scorta del principio enunciato dalla Cassazione con la sentenza n. 18678 del 4.9.2014.
Nell’impugnare il licenziamento davanti al Tribunale di Milano, il lavoratore ha richiamato l’art. 2110 del codice civile, asserendo che il recesso del datore di lavoro, in ipotesi di assenze determinate da malattia, è legittimo soltanto quando il lavoratore abbia superato il periodo di comporto; circostanza, questa, non verificatasi nel caso di specie. La censura del lavoratore viene confutata dal Tribunale di Milano in ragione della netta distinzione che sussiste tra la malattia posta a base del superamento del periodo di comporto e quella posta a base dello scarso rendimento.
In sostanza, “una cosa è la disciplina dell’art.2110 c.c., in ragione della quale da un lato il datore di lavoro non può recedere dal rapporto prima del superamento del periodo di comporto, e dall’altro, il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo, né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse. Altra cosa è la malattia che non rileva di per sé, ma in quanto le assenze in questione, anche se incolpevoli, hanno determinato scarso rendimento e inciso negativamente sulla produzione aziendale”. Nel primo caso, il datore di lavoro ha il solo onere di dedurre e allegare il superamento del periodo di comporto, il quale – per ciò solo – legittima la risoluzione del rapporto. Nel secondo caso, il datore di lavoro ha invece l’onere di allegare e provare che le modalità delle assenze hanno determinato l’impossibilità di utilizzo della prestazione lavorativa. Di qui il rigetto della censura da parte del Tribunale di Milano, atteso che nel caso in esame il licenziamento non era stato intimato per superamento del periodo di comporto, ma in quanto le assenze avrebbero interferito a tal punto con l’attività lavorativa da rendere di fatto la prestazione del lavoratore non fruibile da parte dell’azienda.
Il Tribunale di Milano confuta anche una seconda censura del lavoratore, incentrata sul rilievo secondo cui l’asserito scarso rendimento si sarebbe dovuto far valere per l’intimazione di un licenziamento per giustificato motivo soggettivo (previa contestazione degli addebiti al lavoratore e concessione di un termine per la presentazione di giustificazioni) e non per giustificato motivo oggettivo. In linea con i principi espressi dalla Cassazione, il Tribunale di Milano ha osservato che, ai fini della legittimità del licenziamento, non rileva la colpevolezza/negligenza del lavoratore, ma il fatto che le assenze, anche se incolpevoli, abbiano oggettivamente dato luogo a un rendimento così scarso da rendere inutilizzabile la prestazione per il datore di lavoro.
Richiamati i principi enunciati in generale dalla Cassazione, il Tribunale di Milano è quindi passato a esaminare il caso concreto, per verificare se effettivamente le assenze dal servizio accumulate dal lavoratore licenziato si erano verificate con una modalità tale da rendere inutile la prestazione lavorativa nelle giornate di presenza in azienda. E la conclusione alla quale è pervenuto il Tribunale di Milano è che il datore di lavoro – sul quale gravava il relativo onere della prova – non aveva dimostrato che la prestazione lavorativa del lavoratore licenziato era divenuta effettivamente inutilizzabile in azienda.
Sicuramente la durata e le modalità delle assenze avevano creato non poche difficoltà al datore di lavoro, ma il Tribunale di Milano ha precisato che, ai fini della legittimità del licenziamento, la prova che deve fornire il datore di lavoro deve riguardare non i particolari disagi organizzativi derivanti dalle assenze, ma la scarsa utilità della prestazione lavorativa durante le giornate di presenza in azienda. Ed è questa la prova che il datore di lavoro non era stato in grado di fornire. Di qui la declaratoria di illegittimità del licenziamento, che però non scalfisce il principio già enunciato dalla Cassazione nella sentenza n. 18678 del 4.9.2014, espressamente richiamato dal Tribunale di Milano.
Un ultimo rilievo. Pur avendo accertato l’illegittimità del licenziamento, il Tribunale di Milano ha dichiarato comunque risolto il rapporto di lavoro, poiché ha ritenuto che il fatto posto a base del licenziamento non fosse manifestamente insussistente (in effetti, il datore di lavoro aveva comunque dimostrato sia l’elevato numero delle assenze che le modalità di fruizione del congedo per malattia, che l’impatto negativo generale per l’organizzazione aziendale). Anziché reintegrare in servizio il lavoratore, il Tribunale si è quindi limitato a condannare il datore di lavoro a pagare al lavoratore l’indennità risarcitoria prevista dall’art. 18, quinto comma, della legge n. 300/1970, quantificata nella misura di quindici mensilità.
Tenuto conto che l’art. 18, quinto comma, della l. n. 300/1970 prevede, in caso di illegittimità del licenziamento, una forbice da dodici a ventiquattro mensilità, in relazione anche alla anzianità di servizio del lavoratore, e tenuto conto che nel caso di specie il lavoratore aveva una anzianità di servizio ventennale, non si tratta certo di un importo particolarmente elevato, a fronte della perdita del posto di lavoro e dell’accertata illegittimità del licenziamento.