Prendendo spunto da una recente sentenza della Cassazione, proviamo a verificare com’è cambiata, negli ultimi anni, la disciplina dei licenziamenti. Proviamo, in particolare, a verificare come siano diverse, a seconda delle discipline applicabili, le concrete conseguenze dell’impugnazione di un licenziamento, intimato per un fatto che abbia rilevanza disciplinare, ma per il quale la sanzione espulsiva si ritenga troppo severa.
Il fatto. Il dipendente di un Centro commerciale si appropria di un porta telefono magnetico di valore esiguo (prezzo 2,90 euro). Scattato l’allarme del dispositivo antitaccheggio, e invitato a svuotare le tasche, il lavoratore esibisce alcuni oggetti, ma non quello sottratto. Pedinato dal solerte capo turno, però, egli viene alla fine scoperto, mentre cerca di disfarsi dell’oggetto rubato. Conseguenza: licenziamento per giusta causa.
Il licenziamento “sproporzionato”. La Corte di cassazione viene investita del giudizio sulle congruità della sanzione espulsiva: e cioè di una delle questioni che, nelle aule giudiziarie, dà luogo (per molti versi inevitabilmente) alle maggiori incertezze. Il Tribunale e la Corte d’appello avevano rigettato il ricorso del lavoratore, e quindi avevano ritenuto legittimo il recesso, ritenendo pregiudicato il rapporto fiduciario, in considerazione del comportamento tenuto dal dipendente anche dopo la scoperta del fatto, visto che questi aveva continuato a escludere la sua responsabilità e a cercare di eliminarne le prove; né la tenuità del valore dell’oggetto era apparsa circostanza sufficiente ad escludere tale conclusione.
Con la sentenza n. 24530/2015, però, la Cassazione ha ribaltato il giudizio: pur non mettendo in dubbio la rilevanza disciplinare del comportamento del lavoratore, infatti, essa ha ritenuto che l’episodio non assuma «quel carattere di particolare gravità tale da poter determinare la rottura del vincolo fiduciario». Secondo la Corte, infatti, lo stesso comportamento posto in essere dopo la sottrazione del bene appare «facilmente spiegabile in relazione alla preoccupazione del dipendente delle conseguenze del gesto probabilmente commesso – per il bene sottratto – senza alcuna premeditazione, il che spiega anche il panico del lavoratore una volta scoperto (la Corte territoriale ha infatti parlato di una condotta “connotata di riprovevolezza e di pervicacia nel proposito antigiuridico”, termini che mal ricostruiscono una vicenda come quella in esame in quanto ne ingigantiscono abnormemente le proporzioni)» (così, testualmente, la sentenza).
Quindi, considerando sia l’esiguo valore del prodotto sottratto, sia la notevole anzianità del lavoratore, al quale in 16 anni di onorato servizio mai era stato addebitato nulla, la Corte ha ritenuto che «la sanzione disciplinare espulsiva appare obiettivamente sproporzionata». Quali, a questo punto, le conseguenze?
Le conseguenze del licenziamento “sproporzionato”, intimato prima della riforma del 2012. Il licenziamento era stato intimato nel 2006: allo stesso, quindi, andava applicato l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nel testo anteriore alla riforma del 2012. Poiché quella norma imponeva la reintegrazione nel posto di lavoro, in ogni caso di licenziamento illegittimo, la Corte ha disposto in conformità: dunque, il lavoratore è stato reintegrato in servizio, con diritto a ottenere tutte le retribuzioni maturate sin dal 2006 e il versamento dei relativi contributi. La conseguenza, cioè, è stata esattamente identica a quella che si sarebbe realizzata, qualora egli non avesse commesso il fatto.
Le conseguenze dello stesso licenziamento, qualora intimato dopo la riforma del 2012. Le conseguenze sarebbero state decisamente diverse, se il licenziamento fosse stato intimato dopo l’entrata in vigore della legge n. 92/2012, che ha riscritto l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ai sensi della nuova norma, infatti, il licenziamento “sproporzionato” dà luogo a reintegra solo se intimato per un comportamento che il contratto collettivo assoggetta a sanzione conservativa (rimprovero, multa, sospensione disciplinare). Se invece . come accaduto nel caso descritto . il comportamento non è considerato dal contratto collettivo, la reintegra scatta solo se il fatto materialmente non sussiste (Cass. n. 23669/2014) o se lo stesso è privo di rilevanza disciplinare (Cass. 20540/2015).
Nel nostro caso, non ricorrendo alcuna di dette ipotesi, il lavoratore non avrebbe avuto dunque diritto al ripristino del rapporto, ma solo a un’indennità, di importo variabile, a discrezione del giudice, tra 12 e 24 mensilità.
Le conseguenze dello stesso licenziamento, qualora intimato al lavoratore assunto con contratto a “tutele crescenti”. La disciplina appena descritta si applica però ai soli lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015. Per coloro che sono stati assunti (o stabilizzati) a partire da tale data, trovano infatti applicazione le cosiddette “tutele crescenti”, disciplinate dal decreto n. 23/2015. Per questi ultimi, il licenziamento “sproporzionato” è sanzionato con un’indennità di misura pari a 2 mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità di servizio, con un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità.
In effetti, con 16 anni di servizio, ai sensi di tale nuova disciplina il lavoratore avrebbe avuto diritto a 24 mensilità, e quindi al massimo di quanto riconoscibile in base all’art. 18 dello Statuto, come rivisitato dalla legge del 2012 (in realtà, a esser pignoli, forse a qualcosa di meno, visto che quella disciplina fa riferimento alla retribuzione globale di fatto, mentre con le “tutele crescenti” la base di calcolo è costituita dalla retribuzione sulla quale si calcola il t.f.r., il cui importo talvolta è minore; ma la differenza non sussiste in tutti i settori, e spesso non è di particolare rilevanza). Tuttavia, oggi i lavoratori assoggettati alle “tutele crescenti” non raggiungono mai i 16 anni di anzianità; nella maggior parte dei casi, anzi, essi non arrivano neppure a un anno: cosicché, in ipotesi di licenziamento “sproporzionato”, gli stessi possono per ora aspirare a sole 4 mensilità di retribuzione. Ben poco, dunque, rispetto al “fortunato” collega, giudicato con la sentenza n. 24530/2015.