La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 1025 del 21 gennaio 2015 offre alcuni spunti interessanti sul tema della licenziabilità dei dipendenti in malattia e sul controllo della stessa. La Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Roma che aveva disposto la reintegrazione di un lavoratore rimasto assente in via continuativa per 143 giorni senza inviare al datore di lavoro alcun certificato medico e che per tale motivo era stato considerato dimissionario. Nel caso scrutinato, l’azienda comunicava al dipendente che la mancata trasmissione della – pur sollecitata – documentazione medica rendeva applicabile il regolamento del personale a norma del quale è considerato dimissionario il dipendente che si assenti senza giustificato motivo dal lavoro per un periodo superiore a 10 giorni. 

L’interpretazione aziendale era stata ritenuta corretta dal Tribunale di primo grado che rilevava altresì che l’azienda aveva mantenuto nei confronti del lavoratore un atteggiamento più che benevolo, avendo tollerato una lunga assenza ingiustificata e concedendo altresì la fruizione del più favorevole trattamento di malattia al 50%, pur in assenza di qualsivoglia notizia e/o certificato da parte del dipendente.

Orbene, la sentenza della Corte di Cassazione ha definitivamente confermato la decisione di secondo grado riprendendone l’iter argomentativo. In particolare, la Suprema Corte ha osservato che, avendo l’azienda richiesto al lavoratore la trasmissione di certificati medici durante la sua assenza, con ciò stesso aveva ammesso la cognizione della sussistenza della malattia, tanto che aveva corrisposto il relativo trattamento economico. Non poteva pertanto trovare applicazione il regolamento del personale in materia di “dimissioni implicite” dovendo l’assenza del dipendente essere a tutti gli effetti considerata quale assenza ingiustificata. 

Secondo la Corte, la missiva aziendale che riteneva il lavoratore “dimissionario” doveva pertanto qualificarsi quale licenziamento disciplinare intimato senza il rispetto delle garanzie difensive previste dall’art. 7 della L. n. 300/1970 (preventiva contestazione scritta degli addebiti e termine di difesa del lavoratore di 5 giorni). Di qui l’accertata illegittimità del recesso e la reintegrazione del dipendente. L’ineccepibile argomentazione della Cassazione conduce a un risultato paradossale: la reintegrazione per un vizio formale di un lavoratore rimasto assente per ben 143 giorni senza trasmettere alcuna documentazione attestante il preteso stato di malattia, né alcuna altra causa di legittima assenza.

La problematica della comunicazione e dei controlli delle malattie nel rapporto di lavoro è cruciale e di notevole interesse, come dimostra il caso clamoroso recentemente riportato da tutti gli organi di stampa – non solo italiani – che ha coinvolto la Polizia municipale di Roma. La notte del 31 dicembre, l’83,5% degli agenti che dovevano essere in (pubblico) servizio si è assentato per malattia, donazione di sangue, assistenza disabili: a fronte dell’iniziale disponibilità di 1000 agenti, se ne sono presentati in servizio solo 165, mentre 835 colleghi sono rimasti assenti senza preavviso. Per una singolare coincidenza, nella stessa notte l’Atac (Azienda trasporti autoferrotranviari del Comune di Roma) ha registrato la presenza di soli 7 conducenti sui 24 previsti per il servizio della linea A della metropolitana, con gravi disservizi per l’utenza. 

La diserzione di massa dei vigili di Roma è stata da più parti imputata a proteste dovute a questioni sindacali e segnatamente alla rivendicata equiparazione alle altre forze dell’ordine. Non sono mancate nei giorni successivi dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri e di altre istituzioni a riguardo dell’urgenza di una modifica delle regole del pubblico impiego, finalizzata anche ad attribuire all’Inps (come per i dipendenti privati) anziché alle Asl il controllo delle assenze per malattia. Orbene, dinnanzi al problema dell’assenteismo, diffuso primariamente nel settore pubblico ma presente anche in quello privato, gli strumenti a disposizione del datore di lavoro per la verifica del reale stato di malattia dei propri dipendenti sono esigui e risultano spesso inadeguati.

In particolare, ai datori di lavoro è preclusa la possibilità di verificare con medici di propria fiducia l’eventuale malattia del propri dipendenti. Tale verifica può essere eseguita solo richiedendo all’Asl o all’Inps le cossiddette “visite fiscali”, che possono essere effettuate in determinate fasce orarie durante le quali il lavoratore è tenuto a rimanere presso il proprio domicilio, salvo gravissimo e comprovato impedimento. Secondo un orientamento giurisprudenziale, il lavoratore, una volta accertata la malattia dal medico di controllo, non è più tenuto a rispettare le fasce di reperibilità ed è considerata illegittima la condotta del datore di lavoro che richieda reiterate visite fiscali quando l’effettività della patologia è stata già confermata da precedenti controlli (Cassazione n. 1942/1990 e n. 475/1999).

Giacché è frequente che il medico “fiscale” confermi la prognosi anche nei casi di assenteismo principalmente imputato a “sindrome ansioso depressiva”, il datore di lavoro può chiedere in alternativa all’Autorità giudiziaria un accertamento tecnico preventivo sulla persona del lavoratore assente per malattia ai sensi dell’art. 696 c.p.c. L’accertamento tecnico preventivo è un procedimento cautelare volto a verificare lo stato di cose, luoghi o persone prima di un eventuale giudizio. La normativa vigente richiede, ai fini della legittimità dell’accertamento, l’urgenza della verifica che può essere determinata dal pericolo dell’alterazione o dalla possibilità di modifica dello stato della cosa o della persona che potrebbe costituire prova in un eventuale procedimento giudiziario. 

Secondo la Corte Costituzionale (sent. n. 257/1996), in caso di accertamento tecnico preventivo richiesto dal datore di lavoro sulla persona del lavoratore assente per malattia è necessario il consenso del medesimo e il suo diniego preclude l’accertamento. Inoltre, il datore di lavoro deve provare la sussistenza dell’urgenza della verifica che può essere esclusa, ad esempio, dalla mancata preventiva richiesta di controlli fiscali o dalla proposizione del ricorso cautelare dopo un tempo eccessivo rispetto all’inizio della malattia (Tribunale di Milano 7.10.2006). Tale procedura richiede normalmente un lasso di tempo di alcune settimane entro le quali non è raro che il dipendente “guarisca”, rendendo pertanto inutile e inammissibile l’accertamento tecnico.

In tale situazione le aziende talora tentano di verificare la reale sussistenza della malattia mediante indagini sugli spostamenti del dipendente svolte direttamente ovvero attraverso agenzie private autorizzate, anche se va segnalato che la giurisprudenza è contrastante nell’ammettere tali verifiche e l’utilizzabilità delle eventuali prove raccolte in giudizio.

Peraltro la Cassazione ha rilevato che nel nostro ordinamento non sussiste un divieto assoluto per il dipendente di prestare attività lavorativa, anche a favore di terzi, durante il periodo di assenza per malattia. Ad avviso della giurisprudenza, una violazione disciplinare può concretizzarsi solo allorché lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente “malato” sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando con ciò una sua fraudolenta simulazione; ovvero quando l’attività stessa, valutata in relazione alla natura e alle caratteristiche della malattia certificata e alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro principale, sia tale da pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore. 

Come appare evidente, la problematica della malattia costituisce un “fronte avanzato” nel diritto del lavoro tra vecchie e consolidate garanzie che spesso si prestano ad abusi e forme più moderne ed efficienti di tutela delle esigenze di salute reali, anche a vantaggio della trasparenza e della competitività del nostro sistema produttivo; ed è difficile contestare che il “fronte” si debba attestare su una linea che consenta un più rigoroso ed efficiente controllo per tutelare le vere malattie e reprimere i comportamenti illeciti.

Tuttavia, come insegna il caso dei “vigili di Roma”, vi è un problema di responsabilità che incombe su ciascun lavoratore e sulle associazioni sindacali e che nessuna legge – anche la più giusta – può sostituire. Altrimenti, come ricordava T. Eliot, si finirebbe per “sognare sistemi talmente perfetti per cui nessuno avrebbe più bisogno di essere buono”.