Il 7 marzo scorso è entrato in vigore il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, ed è perciò operativo il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, di cui tanto si è discusso nei mesi scorsi. Proviamo allora ad analizzare brevemente la nuova disciplina, anche per comprenderne le scelte di fondo. 

Le “tutele crescenti”, in realtà, riguardano soltanto la disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo e stanno a significare che alla reintegrazione, già peraltro limitata dalla riforma Fornero del 2012, subentra un indennizzo economico di entità crescente all’aumentare dell’anzianità lavorativa del lavoratore licenziato: l’importo, infatti, fermo restando che non può essere inferiore a quattro e superiore a ventiquattro mensilità e non è assoggettato a contribuzione previdenziale, è pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità lavorativa. L’indennizzo, inoltre, non è più commisurato “all’ultima retribuzione globale di fatto”, come recita l’art. 18, co. 2, l. n. 300/1970, bensì a quella utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto, ai sensi dell’art. 2120 c.c. ed eventualmente le clausole del contratto collettivo. 



Ciò vale: a) in caso di illegittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, ovvero dei licenziamenti collettivi, quando non siano state osservate le procedure o rispettati i criteri di scelta previsti, rispettivamente, dagli artt. 4, co. 12 e 5, co. 1, l. n. 223/1991. Pertanto, in tutte le ipotesi di licenziamento per motivi economici sparisce la reintegrazione, con l’unica eccezione del licenziamento orale, individuale o collettivo che sia; b) in presenza di licenziamento privo di giustificato motivo soggettivo o di giusta causa, salvo che venga “direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, nel qual caso permane il diritto al reintegro per il lavoratore; diritto altresì riconosciuto quando il licenziamento sia nullo, perché discriminatorio o perché considerato tale dalla legge, ovvero sia inefficace, perché intimato in forma orale.



Ancora, l’indennizzo resta l’unica sanzione: a) quando nella comunicazione scritta del licenziamento sia assente o carente la specificazione, richiesta dall’art.2, co. 2, l. n. 604/1966, dei motivi che lo hanno determinato: qui, tuttavia, l’importo è ridotto variando tra due e dodici mensilità, secondo la regola crescente di una mensilità per ogni anno di servizio; b) per i licenziamenti illegittimi perché privi di giusta causa o giustificato motivo intimati da datori di lavoro che occupino fino a quindici dipendenti (cinque se imprenditore agricolo), cioè nell’area finora coperta dalla cosiddetta tutela obbligatoria: viene meno, perciò, l’alternativa posta al datore di lavoro tra riassunzione del lavoratore e indennità risarcitoria – compresa fra 2,5 e 6 mensilità di retribuzione, a volte, peraltro, aumentabili a 10 o 14 (art. 8, l. n. 604/1966) -, e resta solo quest’ultima, in una misura non superiore a sei mensilità, anche se sul quantum la lettera della norma presenta alcune difficoltà interpretative; c) in caso di licenziamenti illegittimi perché privi di giusta causa o giustificato motivo, ovvero per vizi di forma, intimati da datori di lavoro “non imprenditori che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto”, indipendentemente dalle dimensioni dell’organico. Anche in questa ipotesi si supera l’applicazione della tutela obbligatoria – estesa a questi soggetti dall’art. 4, co. 1, secondo periodo, l. n. 108/1990 – in favore del regime indennitario, secondo la disciplina del d.lgs. n. 23/2015, modulato, perciò, in relazione alle dimensioni occupazionali e al tipo di vizio dell’atto di recesso. 



In definitiva, viene sostanzialmente superato il famoso art. 18, l. n. 300/1970, dal 1970 perno e simbolo del sistema giusindacale di tutela dei lavoratori subordinati. Letta in quest’ottica, perciò la nuova legge riduce il livello delle garanzie godute finora da tali lavoratori. Tuttavia, ciò non significa necessariamente una perdita secca. L’effetto complessivo dell’operazione, infatti, è apprezzabile in termini di certezza, innanzitutto, degli effetti economici del licenziamento – sotto il profilo della conoscibilità a priori dei costi per il datore di lavoro e del possibile ristoro per il lavoratore – e poi anche del diritto – sia perché semplifica e uniforma la disciplina del licenziamento illegittimo (ma vedi oltre), sia perché, in tal modo, sottrae spazi alla discrezionalità giudiziale. Inoltre, la conoscenza preventiva del costo/ristoro potrebbe riflettersi beneficamente sul contenzioso, insterilendo l’utilità di pratiche processuali dilatorie nonché la convenienza stessa del ricorso giudiziale, anche con ricadute sui tempi e i costi della giustizia. 

Che questo sia un obiettivo perseguito dal legislatore, del resto, è reso palese dall’art. 6. La norma sancisce che entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento il datore può offrire al lavoratore una somma compresa fra due e diciotto mensilità di retribuzione e crescente in ragione di una mensilità per ogni anno di servizio. Ora, la sua accettazione “comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta”. E, per incentivare questa opportunità, si prevede che l’offerta avvenga soltanto mediante assegno circolare e presso una sede conciliativa ex art. 2113, co. 4, c.c. o una commissione di certificazione, e soprattutto l’irrilevanza ai fini Irpef della somma. Dal canto suo, il datore di lavoro è tenuto a comunicare ai Centri per l’impiego, entro 65 giorni dalla cessazione del rapporto, l’avvenuta o non avvenuta conciliazione: la comunicazione pare dunque dovuta anche qualora il datore non ricorra all’offerta di conciliazione e la sua omissione è punita con sanzione amministrativa.

Il campo di applicazione della normativa appena descritta, tuttavia, è limitato ai contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo (7 marzo), mentre ai contratti già in corso a tale data continuano ad applicarsi le regole di cui all’art. 18, l. n. 300/1970, come riscritte dalla riforma del 2012, oppure la tutela obbligatoria (art. 8, l. n. 604/1966), a seconda delle dimensioni dell’organizzazione produttiva. 

In realtà, il nuovo regime si applica anche ad alcuni contratti di lavoro previgenti, probabile segnale, questo, dell’aspirazione governativa a generalizzarne gradualmente la portata. Così è quando, dopo il 7 marzo, siano convertiti in contratti a tempo indeterminato contratti a termine o anche di apprendistato – che peraltro è già fin dalla stipula a tempo indeterminato -, attivati prima di quella data. E ancora, quando siano licenziati lavoratori già dipendenti da datori di lavoro che, a seguito di assunzioni a tempo indeterminato successive al 7 marzo, superino la soglia per l’applicazione dell’art. 18, l. n. 300/1970 (15 dipendenti).

Pertanto, l’acquisita certezza dei costi e del diritto si accompagna a una scansione temporale, che può apparire con essi contraddittoria, determinando la contemporanea applicazione di due differenti discipline a lavoratori con identiche mansioni e dipendenti dal medesimo datore di lavoro. Il che, se produce indubbiamente una complicazione gestionale, però di scarso rilievo giuridico, determinerebbe, secondo alcuni interpreti, un vulnus al principio di eguaglianza. 

La questione è delicata e l’ultima parola spetterà alla Corte costituzionale. Tuttavia, va notato che situazioni simili non sono sconosciute anche in ambito lavoristico e segnatamente previdenziale, ove è principio consolidato quello per cui nel nostro sistema costituzionale non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, purché esse non trasmodino in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti (cfr. Corte cost. n. 349 del 1985 e n. 210 del 1971). Altresì, il principio di gradualità dell’intervento legislativo per l’attuazione del sistema previdenziale ha legittimato differenze di trattamento collegate alla successione temporale delle sue fasi di sviluppo (cfr. Corte cost. n. 180 del 1982 e n.1116 del 1988).

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