Il 7 marzo 2015 sono entrate in vigore le nuove norme in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, contenute nel decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23, sulle quali tanto si era dibattuto nei mesi passati e tanto si dibatte ancora oggi. Il decreto legislativo attua la delega contenuta nella legge 10 dicembre 2014 n. 183, prevedendo, per le nuove assunzioni, il contratto a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio in caso di licenziamento illegittimo e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti discriminatori, nulli e intimati in forma orale e al caso di licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo in ragione della insussistenza del fatto contestato.



Il regime delle “tutele crescenti” si applica ai contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati a partire dal 7 marzo 2015 e riguarda tutte le nuove assunzioni, sia dei lavoratori che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro, o che provengono da una stato di disoccupazione, sia di coloro i quali, già impiegati e avendo maturato un’anzianità di servizio anche consistente, passano da un datore di lavoro all’altro.



Una preoccupazione ricorrente, sollevata anche da illustri opinionisti sulle prime pagine di importanti quotidiani nazionali, è che il nuovo contratto a tutele crescenti possa cristallizzare il mercato del lavoro, disincentivando i lavoratori già impiegati a trasferirsi da un posto di lavoro all’altro, anche nello stesso settore merceologico e perfino nell’ambito dello stesso gruppo di impresa, a motivo del trattamento meno favorevole previsto dalla nuova normativa rispetto alla precedente.

Per ovviare a questo problema, le parti sociali si stanno attrezzando per assicurare il mantenimento del “vecchio” e più favorevole regime di cui all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori almeno nei confronti di quei lavoratori che passano da un’azienda all’altra dello stesso Gruppo o dei lavoratori coinvolti nei processi di riorganizzazione e/o ristrutturazione che comportino il passaggio di personale e attività ad altro datore di lavoro; e ciò anche in forza del principio enunciato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 143/1998, secondo cui i contratti di lavoro possono derogare in melius alle norme di legge, anche in materia di tutela spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo.



In particolare, la Corte Costituzionale ha affermato che la tutela risarcitoria, prevista dall’art. 8 della legge n. 604/1966 nei confronti delle aziende al di sotto dei 16 dipendenti, è derogabile in melius da parte della contrattazione collettiva, che ben può prevedere convenzionalmente l’applicazione del regime di stabilità reale (prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori) anche alle imprese di minori dimensioni. “Tale derogabilità”, afferma la Corte, “non è in contrasto né con l’art. 3, né con l’art. 44, comma 1, Cost. non essendo ravvisabili, in tale materia, interessi generali idonei a comprimere la libertà di contrattazione”.

Un caso recente, balzato agli onori della cronaca, è quello che ha riguardato una nota azienda farmaceutica, la Novartis. Dovendo procedere all’assunzione presso la propria sede di Varese di 35 lavoratori precedentemente occupati presso altre aziende del gruppo, e per incentivare i lavoratori a passare da una azienda all’altra, la società ha convenuto con le organizzazioni sindacali il mantenimento del “vecchio” regime della legge Fornero in luogo del “nuovo” regime del Jobs Act in caso di licenziamento illegittimo, ferma restando l’applicabilità della nuova disciplina nei confronti di tutti gli altri nuovi assunti.

Su scala nazionale, un caso di notevole interesse e rilievo è costituito dal recente accordo per il rinnovo del Ccnl del credito, stipulato il 31 marzo scorso dall’Abi con le più importanti sigle sindacali del settore, il quale prevede che “nei casi di cessioni individuali e collettive dei contratti di lavoro, nonché nei processi di riorganizzazione e/o ristrutturazione (ad esempio, cessione di ramo d’azienda, NewCo) che comportino il passaggio di personale e attività ad altro datore di lavoro, sono utilizzati istituti giuridici, oggetto delle apposite procedure contrattuali e/o di legge, da cui deriva per il personale interessato la continuità del rapporto ai conseguenti effetti”.

Qui le parti sociali non hanno direttamente pattuito, in deroga a quanto previsto dal Jobs Act, il mantenimento in via convenzionale del vecchio e più favorevole regime previsto dall’articolo 18, ma hanno previsto, a beneficio di alcune limitate categorie di lavoratori coinvolti in processi di riorganizzazione e/o ristrutturazione, il ricorso a istituti giuridici che assicurano al lavoratore la continuità giuridica del rapporto nel passaggio da un’azienda all’altra. In pratica, il mantenimento del vecchio regime non deriva da una deroga espressa alla nuova normativa, ma dal fatto che, in forza degli istituti giuridici che le parti sociali si sono impegnate a utilizzare, il passaggio del lavoratore da un’azienda all’altra, in quelle particolari ipotesi, non è equiparabile a una “nuova assunzione”.

È il caso, ad esempio, del trasferimento di azienda, che assicura la prosecuzione del rapporto di lavoro senza soluzione di continuità e il mantenimento in capo al lavoratore della pregressa anzianità di servizio. Per trasferimento di azienda, si intende, ai sensi dell’art. 2112 del codice civile “qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o da provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato, ivi compresi l’usufrutto o l’affitto dall’azienda”; e la prosecuzione del rapporto senza soluzione di continuità è garantita anche in caso di “trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di una attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento” (ibidem).

In caso di trasferimento di azienda o di un ramo di essa, il passaggio non richiede il consenso del lavoratore. Lo richiede invece necessariamente la cessione del contratto individuale di lavoro, disciplinata dagli artt. 1406 e ss. del codice civile, che pure è utilizzabile dalle parti per garantire al lavoratore, in caso di passaggio da un’azienda all’altra, la prosecuzione del rapporto di lavoro senza soluzione di continuità, e l’applicazione del vecchio regime di tutela in caso di licenziamento illegittimo.

Sebbene siano entrate in vigore il 7 marzo 2015, ci vorrà quindi del tempo prima che le nuove norme sul contratto di lavoro a tutele crescenti, previste dal decreto legislativo n. 23/2015, si estendano alla generalità dei lavoratori: non soltanto perché le nuove norme si applicano soltanto ai nuovi assunti a partire dal 7 marzo 2015, ma anche a motivo del comportamento che stanno assumendo le parti sociali per favorire la mobilità infragruppo o per venire incontro alle esigenze dei lavoratori coinvolti in processi di ristrutturazione. E chissà se nel frattempo non ci troveremo a commentare una nuova ed ennesima riforma…

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