I primi due decreti attuativi del cosiddetto Jobs Act – nn. 22 e 23, rispettivamente dedicati alle tutele in favore dei disoccupati e al contratto a tutele crescenti – intendono muoversi nella prospettiva della cosiddetta flexecurity. Da un lato, infatti, il decreto n. 23 introduce una maggiore flexibility in uscita, sottraendo i lavoratori assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015 (e pochi altri) all’area di applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: per costoro, la tutela contro i licenziamenti illegittimi si fa più debole, cosicché per le imprese è più facile licenziare. Nel contempo, però, il decreto n. 22 dovrebbe compensare tale diminuita stabilità del posto di lavoro con un’iniezione di security, in favore di coloro che quel posto, di fatto, perdono. Ma, sotto questo secondo profilo, la security è davvero effettiva?



Al proposito, il decreto n. 22 prevede due tipi di intervento. I più interessanti sono senza dubbio quelli che si muovono nella prospettiva del sostegno alla ricerca della nuova occupazione. Da questo punto di vista, ad esempio, l’introduzione del contratto di ricollocamento potrebbe dare buoni frutti, come varie esperienze regionali (soprattutto in Lombardia) insegnano: il lavoratore sceglie un’agenzia di lavoro operante sul mercato, la quale, se è abbastanza brava da farlo rioccupare, incassa il “premio” messogli a disposizione dallo Stato. Peccato, però, che per ora il contratto di ricollocamento rimanga sulla carta, perché la sua disciplina – che dovrà anche regolare detto “premio” – attende di essere completata da altri decreti. Più in generale, sono ancora tutte da scrivere – e da attuare – le misure che dovrebbero rinnovare i servizi a sostegno di coloro che cercano lavoro.



La seconda tipologia di interventi prevista dal decreto n. 22 è, invece, dedicata al sostegno economico del lavoratore disoccupato, e si attua soprattutto mediante introduzione della “Nuova ASpI”, in acronimo NASpI: e cioè la nuova indennità di disoccupazione, che dal 1° maggio 2015 sostituirà l’ASpI. A prima vista, la nuova indennità sembra introdurre davvero una disciplina più favorevole della precedente. Ciò è evidente, soprattutto, per la maggiore facilità di accesso (i requisiti contributivi minimi sono più facilmente raggiungibili che in passato) e per la durata: mentre, infatti, oggi l’ASpI può durare, al massimo, 12 mesi, elevabili a 18 per i disoccupati ultracinquantenni, la NASpI, almeno sino alla fine del 2016, potrà essere goduta, per chi ha una buona anzianità contributiva, per un periodo sino a 24 mesi (per chi, invece, perderà il lavoro dal 2017, il tetto massimo di durata si abbasserà a 78 settimane, cioè a circa 18 mesi). Quindi, almeno sotto tale profilo, chi perde il posto sembrerebbe avere un po’ più di security, rispetto al passato. Ma sarà vero?



Sappiamo che la tutela previdenziale contro la disoccupazione si realizza non solo con il pagamento dell’indennità, la prestazione monetaria, che pure è fondamentale, ma anche con la contribuzione figurativa, che dovrebbe assicurare accrediti utili ai fini della pensione, per tutto il periodo in cui l’indennità stessa viene erogata. In effetti, l’art. 12, comma 1, del decreto n. 22 prevede proprio questo, specificando che, ai fini dell’accredito, il valore della retribuzione pensionabile è lo stesso che costituisce base di calcolo della NASpI: essa è cioè pari alla media delle retribuzioni godute negli ultimi 4 anni, ma con un tetto massimo pari a 1,4 volte l’importo massimo mensile dell’indennità (in soldi: il massimale della NASpI per il 2015 è 1.300 euro; quindi il tetto di retribuzione pensionabile accreditabile per lo stesso anno è pari a 1.820 euro).

Fin qui tutto bene. L’art. 12, però, ha un secondo comma, che recita esattamente così: «Le retribuzioni computate nei limiti di cui al comma 1, rivalutate fino alla data di decorrenza della pensione, non sono prese in considerazione per la determinazione della retribuzione pensionabile qualora siano di importo inferiore alla retribuzione media pensionabile ottenuta non considerando tali retribuzioni. Rimane salvo il computo dell’anzianità contributiva relativa ai periodi eventualmente non considerati nella determinazione della retribuzione pensionabile ai fini dell’applicazione dell’articolo 24, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214».

Scusino i lettori, ma era proprio necessario riportare integralmente la norma, per dimostrare come sia difficile comprenderla: tanto difficile che il dossier predisposto dalla Commissione lavoro della Camera, chiamata a esprimere il proprio parere sul decreto, a proposito dice testualmente: “Si segnala che la portata normativa della disposizione di cui al comma 2 non appare chiara“. Insomma, la norma è stata emanata, nonostante neppure gli esperti del Parlamento l’avessero capita. O forse hanno fatto finta di non capirla?

Perché, in realtà, se lo leggiamo attentamente, quel comma dice una cosa molto “tecnica”: se il valore figurativo della retribuzione pensionabile riferita al periodo di godimento della NASpI è inferiore alla media delle retribuzioni pensionabili riferite agli altri periodi accreditati ai fini pensionistici (principalmente quelle riferite a periodi di lavoro effettivo e alla corrispondente contribuzione obbligatoria), la contribuzione figurativa non incrementerà il montante contributivo individuale, sul quale si calcola la pensione. Quella contribuzione figurativa, dunque, varrà a raggiungere l’anzianità necessaria per l’accesso alla pensione; tuttavia, ai fini del calcolo del trattamento non servirà a nulla.

Attendiamo di sapere che cosa ne pensa l’Inps. Se, però, chi scrive avesse “azzeccato” l’interpretazione corretta, sarebbe un po’ difficile spiegare ai lavoratori dove sta, per loro, la security.

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