Nel decreto legislativo sulla revisione delle tipologie contrattuali (n. 81 del 15 giugno 2015), attuativo del Jobs Act, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 24 giugno scorso, è contenuta anche la nuova disciplina dell’attribuzione e del mutamento delle mansioni affidate ai lavoratori: disciplina da sempre “centrale” sia per gli assetti giuridici dei rapporti di lavoro, sia per la loro concreta gestione. Le nuove disposizioni vogliono rispondere soprattutto all’esigenza delle imprese di poter fruire di più ampi spazi di manovra nell’attribuzione dei compiti al proprio interno.
La vecchia disciplina – che fu introdotta dallo Statuto dei lavoratori ben 45 anni fa, e che sicuramente, nella prospettiva storica, rappresenta una conquista dei lavoratori, a tutela della loro dignità e professionalità – era infatti ormai inadeguata, di fronte alle sfide poste dall’innovazione tecnologica e dal mercato. Talvolta, poi, le rigidità imposte da quella disciplina contrastavano anche con le esigenze personali dei lavoratori, che potevano accordarsi per un mutamento sostanziale delle proprie mansioni (anche mediante attribuzione di mansioni inferiori) non in tutti i casi nei quali essi ne avessero effettiva esigenza, ma solo in situazioni limite, e in particolare quando ciò era necessario per evitare un licenziamento per motivi oggettivi.
Il nuovo articolo 2103 c.c., riscritto dal decreto delegato, innanzitutto consente ai datori di lavoro di modificare le mansioni, sia attribuendo compiti di contenuto professionale diverso da quello delle precedenti, ancorché riferibili allo stesso livello di inquadramento (la cosiddetta mobilità “orizzontale”), sia attribuendo mansioni inferiori.
Se, a una lettura superficiale, ciò potrebbe indurre a pensare a una forte compressione del diritto alla conservazione della propria professionalità (diritto pacificamente di rango costituzionale), in realtà le cose non stanno esattamente così.
In particolare, per l’attribuzione, mediante provvedimento unilaterale del datore di lavoro, di mansioni inferiori, numerosi sono i contrappesi imposti dal legislatore: vi deve essere, a monte, una riorganizzazione aziendale (sulla cui effettiva sussistenza i Giudici del lavoro porranno, con ogni probabilità, particolare attenzione); lo “spostamento” potrà riguardare solo le mansioni appartenenti al livello di inquadramento immediatamente inferiore a quello in possesso del lavoratore; la retribuzione rimarrà invariata; il provvedimento dovrà essere comunicato per iscritto a pena di nullità.
In ogni caso, rimarrà l’obbligo di accompagnare ogni modifica delle mansioni, anche in senso “orizzontale”, da tutta la formazione che risulterà, in concreto, necessaria. Non inganni, in proposito, la disposizione per la quale il mancato assolvimento dell’obbligo formativo «non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione»: qualora, infatti, le nuove mansioni richiedano, per poter essere efficacemente svolte, una formazione specifica, il datore di lavoro che non provveda non potrà in alcun modo contestare al dipendente l’eventuale imperizia.
Qualora, poi, l’attribuzione delle nuove mansioni modifichi le condizioni di rischio per la salute del lavoratore (si pensi all’adibizione a nuovi macchinari, o all’esposizione ad agenti pericolosi, tanto per fare gli esempi più banali), la mancanza di specifica formazione e informazione sotto tale profilo esporrà il datore di lavoro a pesanti sanzioni; abilitando nel contempo il lavoratore al legittimo rifiuto della prestazione, sino a quando l’obbligo formativo non sia adempiuto (ipotesi, quest’ultima, che, come noto, non sempre si realizza, soprattutto nelle piccole imprese: il vero deterrente rispetto a simili abusi rimane, dunque, pur sempre quello delle sanzioni).
In realtà, se si va a leggere con attenzione il nuovo testo dell’art. 2103 c.c., ci si avvede che la vera scommessa del legislatore delegato sta nel proporre agli attori l’adozione di scelte condivise. In tale direzione si muove, in primo luogo, il comma 6, che consente, mediante accordi individuali conclusi nelle tradizionali sedi di conciliazione o avanti alle commissioni di certificazione, di modificare le mansioni, la categoria e i livelli di inquadramento del lavoratore (“saltando” anche più di un livello), modificando anche (a differenza di quanto accade nella ricordata ipotesi dell’attribuzione unilaterale) la relativa retribuzione.
Tali accordi potranno essere conclusi, qualora sussista un «interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita» e, dunque, a fronte di situazioni che dovranno essere individuate e dichiarate negli accordi sottoscritti.
Ma la vera scommessa della nuova disciplina sembra risiedere nel ruolo affidato alla contrattazione collettiva. Sotto tale profilo, il comma 4 del nuovo art. 2103 c.c. si limita a disporre che «ulteriori ipotesi di assegnazione a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore possono essere previste dai contratti collettivi». Si prevede, dunque, che i contratti collettivi, di qualsiasi livello, possano individuare situazioni nelle quali la mobilità verso il basso può prescindere dalla riorganizzazione aziendale (si pensi a ipotesi di gestione di crisi, o a qualsiasi altra situazione nella quale si possa ipotizzare una coincidenza tra l’interesse collettivo e quello dell’impresa a una più utile gestione dell’attività; i molti casi si potranno replicare, ma con maggiore libertà di azione, e forse con minore opposizione della Cgil, le fattispecie già previste dalla disciplina dei cosiddetti contratti di prossimità, di cui all’art. 8, d.l. n. 138/2011).
In realtà, anche in questo caso la disciplina va valutata nel suo complesso, senza fermarsi alle sole indicazioni espresse dalla singola disposizione. E invero, se si considera la maggior ampiezza che, nel nuovo art. 2013 c.c., assume il potere direttivo dell’imprenditore (si è già accennato, ad esempio, alla possibilità di realizzare una mobilità tra mansioni che, pur inquadrate nello stesso livello, abbiano contenuti professionali anche sostanzialmente diversi, e quindi a un’ipotesi in linea di principio non consentita dalla vecchia disciplina) si aprono alla contrattazione ampi spazi per una gestione condivisa di quello stesso potere: la realizzazione di sistemi di job rotation, l’individuazione di percorsi di riqualificazione professionale, la gestione negoziata delle riorganizzazioni sono solo alcuni degli strumenti che la contrattazione – soprattutto al livello aziendale – potrà individuare, per cogliere obiettivi comuni di affermazione dell’impresa sul mercato, nonché di rafforzamento delle professionalità dei lavoratori e di tutela della loro occupazione e occupabilità.
Il funzionamento della disciplina, in definitiva, dipenderà molto da come essa verrà concretamente utilizzata. Se, da un lato, gli imprenditori eviteranno un “uso improprio” dei maggiori spazi di manovra concessi dal legislatore (uso che, come in parte già accennato, potrebbe peraltro ritorcersi contro di loro); se le organizzazioni sindacali eviteranno di “sponsorizzare” vertenze fondate su interpretazioni eccessivamente restrittive della nuova disciplina (che come tali non sarebbero certo rispettose della sua ratio); e se, soprattutto, tutte le Parti si convinceranno della necessità di affrontare i temi dell’attribuzione e modifica delle mansioni nel contesto di una leale negoziazione, la nuova disciplina potrà costituire un importante tassello per la costruzione di relazioni di lavoro più moderne e fruttuose.