Il nuovo assetto del diritto del lavoro disegnato dal Jobs Act è costruito attorno a due poli e alla loro relazione: il contratto a tutele crescenti, da un lato, il contratto di ricollocazione, dall’altro. Nella prospettiva della flexicurity, che anima la riforma, il primo guarda alla flessibilità, attraverso l’allentamento delle tutele nel rapporto di lavoro, l’altro alla sicurezza nel mercato del lavoro. Se il disegno è chiaro, altra cosa è la sua concretizzazione, dovendo scontare una serie di condizionamenti di varia natura: istituzionali, organizzativi e, non ultimo, finanziari, poiché le politiche del lavoro costano, le risorse sono scarse e senza non si va da nessuna parte.



Dei due poli, al momento, il primo è pienamente operativo (d.lgs. n. 23 del 2015), mentre il secondo è al centro di una tormentata vicenda legislativa, che si intreccia con la costituzione dell’Agenzia nazionale per le politiche Attive del Lavoro (Anpal) e la riforma costituzionale, volta a privare le regioni delle competenze legislative in materia di lavoro. In una prima versione, infatti, il contratto di ricollocazione compensava dall’esclusione della reintegrazione i lavoratori licenziati per ragioni economiche; poi è transitato dallo schema di d.lgs. sul contratto a tutele crescenti al d.lgs. n. 22 del 2015, art. 17, allargando il suo ambito applicativo a tutti i disoccupati. Peraltro, esso non è ancora operativo, perché importanti aspetti di disciplina sono rimandati al d.lgs. di attuazione della delega sull’Anpal. Sennonché, lo schema di questo provvedimento, approvato dal consiglio dei Ministri (11 giugno) e ora al vaglio del Parlamento, prevede l’abrogazione del suddetto art. 17, salvo il co. 1, e l’introduzione, in sua vece, di un assegno di ricollocazione (art. 23).



Ma cos’è il contratto di ricollocazione? Dal 2000 è ammessa in Italia l’attività di «supporto alla ricollocazione professionale», meglio nota come outplacement, a sua volta distinto in individuale, oppure collettivo, laddove riguardi una pluralità di lavoratori. Essa è definita come «l’attività effettuata su specifico ed esclusivo incarico dell’organizzazione committente, anche in base ad accordi sindacali, finalizzata alla ricollocazione nel mercato del lavoro di prestatori di lavoro, singolarmente o collettivamente considerati, attraverso la preparazione, la formazione finalizzata all’inserimento lavorativo, l’accompagnamento della persona e l’affiancamento della stessa nell’inserimento nella nuova attività» (art. 2, lett. d, d.lgs. n. 276 del 2003).



Il passaggio dall’attività al contratto di ricollocazione è recente e segue due direttrici. La prima contempla l’offerta obbligatoria al lavoratore licenziato per ragioni economiche di un programma di outplacement, con costi a carico del datore di lavoro. Prospettata in dottrina e tradotta in alcuni disegni di legge mai approvati, tale ipotesi è rimasta sulla carta e anche nella sua versione facoltativa è poco utilizzata dalla contrattazione collettiva. La seconda si verifica quando alcune regioni cominciano a collegare l’erogazione ai disoccupati di risorse pubbliche all’attività di assistenza all’inserimento lavorativo.

L’archetipo è il sistema Dote della regione Lombardia, che coniuga un sistema plurale ed equiordinato di servizi al lavoro pubblici e privati con la libertà di scelta dell’utente. Al disoccupato è assegnata una somma (la Dote), attualmente determinata in misura inversamente proporzionale al maggiore o minore grado di occupabilità dello stesso e spendibile, presso uno qualsiasi dei soggetti accreditati, per ottenere servizi specialistici finalizzati alla rioccupazione. Un tale sistema si fonda sulla l.r. n. 22 del 2006 che espressamente sancisce la libertà di scelta ed equipara gli operatori pubblici e privati.

Qui, peraltro, non si parla di contratto, che è invece richiamato dall’art. 1, c. 215, l. n.147/2013, laddove istituisce il Fondo per le politiche attive del lavoro (Fondo), volto finanziare, tra l’altro, la «sperimentazione regionale del contratto di ricollocazione», senza nulla precisare, però, quanto a contenuto e struttura. Su questa base la regione Lazio – di recente seguita da Sardegna e Sicilia – ha previsto il contratto di ricollocazione quale «strumento di politica attiva del lavoro» con funzione «di sostenere e accompagnare la persona interessata […] favorendone il reinserimento attraverso un servizio personalizzato».

Due tratti differenziano queste esperienze da quella lombarda: 1) l’intervento necessario dei Centri per l’impiego, che determinano il grado di occupabilità del soggetto, assegnano la relativa somma e stipulano il contratto, insieme al disoccupato e all’operatore accreditato per l’erogazione del servizio, liberamente scelto dall’utente; 2) la previsione espressa dell’obbligo, per il disoccupato, di svolgere le attività concordate con l’operatore accreditato, seguirne le indicazioni sulle modalità di ricerca di un lavoro e accettare le offerte di lavoro congrue. Obbligo il cui inadempimento è sanzionato con la decadenza, tra l’altro, dalla titolarità delvoucher. E nella qualificazione contrattuale trovano fondamento tanto la trilateralità della relazione giuridica, che evidenzia la primazia del servizio pubblico rispetto all’operatore privato, pur salvando la libertà di scelta, quanto l’obbligo di partecipazione attiva del disoccupato e, soprattutto, la sanzione correlata all’inadempimento.

A entrambe queste esperienze si richiama l’art. 17, d.lgs. n. 22 del 2015. Si parla di contratto di ricollocazione, se ne individua la controparte nei «servizi per il lavoro pubblici e [nei] soggetti privati accreditati» e l’oggetto in un «servizio di assistenza intensiva nella ricerca del lavoro» e si prevede di stabilire il profilo personale di occupabilità, senza però chiarire chi lo debba effettuare, e di collegarvi l’entità della somma riconosciuta al disoccupato, detta “dote”. Ancora, si sancisce il dovere di partecipazione attiva del titolare della dote, la decadenza da questa in caso di mancata partecipazione o rifiuto di un’offerta di lavoro congrua e, per altro verso, il diritto alla remunerazione, per l’operatore, «soltanto a risultato occupazionale ottenuto», rinviando però al decreto sull’Anpal di stabilire quando ciò si verifichi.

Peraltro, l’intera disciplina soffre di un’intrinseca instabilità per tre ordini di ragioni: intanto, essa è vigente, quindi sembra investire il quadro normativo regionale sopra descritto, ma non è operativa, rinviando aspetti non secondari di disciplina ad altra fonte; inoltre, quest’ultima tocca anche aspetti più generali, oggi di regolazione regionale. Infine, ma fondamentale, c’è il vincolo delle risorse, poche quelle statali previste dal Fondo (art. 17, co. 1), solo eventuali quelle future (co. 7). Con il che si apre un grave vulnus nella prospettiva del riequilibrio tra tutele nel rapporto e sul mercato del lavoro.

Di per sé, anche lo schema di decreto sull’Anpal, qualora approvato definitivamente, presenta qualche rischio in tal senso: si prevede di destinare a finanziamento dell’assegno di ricollocazione una parte delle risorse dei fondi nazionali e regionali oltre che dell’Unione europea, compreso il Fondo sociale europeo, purché vi sia la compatibilità finanziaria, non si determino nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e nel rispetto dei regolamenti europei. E difatti l’assegno è riconosciuto nei limiti delle disponibilità assegnate a tal fine per la regione o la provincia autonoma di residenza del beneficiario.

Detto ciò, la disciplina dell’assegno di ricollocazione (art. 23) è in buona misura analoga a quella dell’art. 17, d.lgs. n. 22 del 2015. È destinato a disoccupati, ma da più di sei mesi, d’ammontare graduato in relazione al profilo d’occupabilità e spendibile presso un centro per l’impiego o un soggetto privato accreditato liberamente scelto, onde ottenere un servizio di assistenza intensiva nella ricerca di lavoro. Modalità e termini temporali di utilizzo sono fissati dai commi da 4 a 6, mentre il co. 3 precisa che l’assegno non costituisce reddito imponibile ai fini dell’Irpef e della contribuzione previdenziale e assistenziale.

Certo, non mancano differenze, soprattutto sotto due profili. Quanto alle fonti di disciplina dell’assegno, le regioni sono esautorate in favore della competenza regolamentare e/o amministrativa del ministero del Lavoro o dell’Anpal. A questa, in particolare, spetta stabilirne le modalità operative e l’ammontare, oltre ai criteri di remunerazione del servizio, non più solo, ma “prevalentemente”, a risultato occupazionale conseguito. Identico discorso vale per la struttura istituzionale del sistema dei servizi per l’impiego, dovedominus assoluto diventa il ministero del Lavoro e la sottostante Anpal. E non è chiaro cosa succederà alle politiche del lavoro regionali, in particolare lombarde.

Al ministero spetta disciplinare l’accreditamento degli operatori, in generale, e abilitati a operare con lo strumento dell’assegno, in particolare (art. 12), mentre Regioni e province autonome erogano i servizi per il lavoro direttamente, attraverso appositi uffici (Centri per l’impiego), o mediante il coinvolgimento di soggetti privati accreditati (art. 18). Tuttavia, il patto di servizio è stipulato dai Centri per l’impiego e deve contenere necessariamente il profilo d’occupabilità del soggetto (art. 20). Se così è, risulta messa fuori gioco la stessa l. r. n. 22 del 2006, laddove consente a qualsiasi operatore accreditato di stipulare il patto di servizio, così sancendo la piena equiparazione tra soggetti pubblici e privati.

È chiaro che tutto ciò presuppone l’approvazione della riforma costituzionale, altrimenti ponendosi in evidente contraddizione con l’attuale art. 117 Cost. D’altro canto, altrettanto evidente è l’opzione legislativa verso una maggiore valorizzazione del soggetto pubblico, dimentica, tuttavia, dell’incapacità nel complesso da questo finora dimostrata – ma molte sono le differenze territoriali-, anche per carenze di risorse umane ed economiche al momento non colmabili.

Invece, non sembra necessariamente destinata a sparire la configurazione contrattuale dello strumento “ricollocazione”, nonostante la cancellazione di indicazioni in tal senso nello schema di decreto legislativo: per un verso, resta il riferimento a tale contratto nell’art. 17, co. 1, d.lgs. n. 22 del 2015, comunque non abrogato; per l’altro, la nuova disciplina ribadisce nella sostanza lo schema sotteso a quella configurazione, soprattutto quanto alla partecipazione attiva del disoccupato.