Contrordine: anche prima dei 70 anni si può licenziare liberamente; basta che il lavoratore abbia maturato i requisiti per andare in pensione.
Avevamo discusso sulla scelta compiuta in occasione della riforma pensionistica del 2011, che, secondo l’opinione quasi unanime degli interpreti, aveva innalzato l’età oltre la quale il lavoratore può essere licenziato senza motivazione – cosiddetto licenziamento ad nutum – sino a 70 anni.
La norma è quella dell’art. 24, comma 4, d.l. n. 201 del 2011, conv. l. n. 214 del 2011, delle quale è opportuno ricordare brevemente il contenuto. Innanzitutto, essa dispone che per i lavoratori iscritti all’assicurazione generale obbligatoria e alle forme esclusive e sostitutive, la pensione si può conseguire al raggiungimento dei nuovi limiti di età fissati dallo stesso art. 24. Si aggiunge, poi, che l’ulteriore proseguimento dell’attività lavorativa «è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall’operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settant’anni»: si prevede, cioè, che chi rimane a lavorare oltre il compimento dell’età pensionabile, gode di coefficienti di trasformazione del montante contributivo che diventano più favorevoli, a mano a mano che l’età avanza, sino, appunto, al settantesimo anno di età.
Quindi – ed è questa la disposizione sui licenziamenti che ci interessa –, la norma prosegue, testualmente, disponendo che «Nei confronti dei lavoratori dipendenti, l’efficacia delle disposizioni di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 – e cioè del “famigerato” art. 18 dello Statuto dei lavoratori – opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità».
Salvo qualche isolata opinione contraria, avevamo ritenuto tutti che, mentre prima dell’introduzione di tale norma, il licenziamento ad nutum era consentito dal momento della maturazione dei requisiti per la pensione di vecchiaia; d’ora in poi, pur in presenza di tali requisiti, il lavoratore che voleva rimanere in servizio sino al settantesimo compleanno rimaneva comunque protetto dai licenziamenti ingiustificati, con tanto di sanzione della reintegra.
Tant’è che ci si era chiesti se la norma operasse in toto anche presso le piccole aziende, alle quali l’art. 18 non si applica: considerato che la risposta affermativa avrebbe portato ad effetti piuttosto paradossali, si propendeva (con non poche incertezze) per la soluzione contraria, e dunque si affermava che, pur rimanendo i licenziamenti assoggettati al vincolo della motivazione, i datori di lavoro non rientranti nel campo di applicazione dell’art. 18 rischiavano, in caso di licenziamento non motivato, solo il pagamento di un’indennità compresa tra 2,5 e 6 mensilità, secondo quanto disposto in via generale dall’art. 8, l. n. 604/1966.
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 17589 del 2015, ci hanno però sorpresi.
La causa era stata instaurata da un giornalista della Rai che, pur avendo maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia, era stato licenziato prima dei fatidici 70 anni. Per ben tre volte – ordinanza e sentenza del Tribunale, sentenza della Corte d’appello – egli era stato reintegrato, per violazione del suddetto articolo 24, comma 4. Le Sezioni Unite hanno ribaltato quelle pronunce, essenzialmente sulla base di due ordini di motivi.
Innanzitutto, le stesse hanno sancito che quella norma non si applica ai lavoratori iscritti agli enti previdenziali con personalità giuridica di diritto privato, e quindi neppure al nostro giornalista, iscritto all’Inpgi, che è appunto un ente privatizzato (ancorché gestore di una forma di previdenza sostitutiva) dal d.lgs. n. 509/1994. Sul punto, la ricostruzione della Corte appare condivisibile: l’art. 24, comma 4, è infatti parte integrante della disciplina della riforma pensionistica del 2011, che non è direttamente applicabile a detti enti, ai quali la legge, pur con i limiti previsti, riserva autonoma potestà normativa in materia.
E’, invece, piuttosto sorprendente l’ulteriore indicazione fornita dalle Sezioni unite, per la quale, nel proprio ambito di applicazione, la disposizione sul licenziamento ante 70 anni opera solo in presenza di un duplice presupposto. Innanzitutto, è necessario che la disciplina della pensione sia completata con l’introduzione di coefficienti di trasformazione del montante contributivo parametrati sino ai 70 anni: e sul punto nulla questio, visto che i decreti ministeriali in materia esistono e sono pienamente operanti.
Lascia, invece, perplessi, la seconda condizione individuata dai supremi giudici, i quali escludono che, nonostante l’avvenuta introduzione dei coefficienti, il lavoratore vanti un diritto potestativo alla prosecuzione del rapporto di lavoro, con applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti e, dunque, anche dell’art. 18 Stat. lav., secondo quanto invece, sino ad oggi, i più ritenevano. Tale tutela, infatti, secondo la Corte si applica solo se «le parti consensualmente stabiliscano la prosecuzione del rapporto di lavoro sulla base di una reciproca valutazione di interessi».
Insomma: ti applico l’art. 18 solo se l’imprenditore è d’accordo. E cioè mai.
Cosicché, nei fatti, rimane operante la disciplina previgente, per la quale la recedibilità ad nutum interviene dal momento in cui i lavoratori maturano i requisiti per la pensione di vecchiaia, senza necessità di attendere i 70 anni di età.
La decisione farà contente le imprese, ma, sotto il profilo del metodo, non sembra particolarmente appagante. E’ vero, infatti, che, per come formulata, la disposizione dell’art. 24, comma 4, era per molti versi discutibile. Ma siamo davvero sicuri che non sia altrettanto (e forse ancor più) discutibile un’interpretazione che fa diventare quella stessa norma talmente inutile, da trasformarla in una sorta di presa in giro?