Com’è noto, fino all’entrata in vigore della legge Fornero (L. 92/2012), per ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento per giusta causa (ad esempio, per mancata prova dei fatti addebitati al lavoratore, per tardività della contestazione disciplinare, per difetto di proporzionalità tra fatto e sanzione, ecc.), l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori stabiliva la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (oltre al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data di licenziamento alla reintegrazione).



A seguito delle modifiche introdotte dall’art. 1 co. 42 della legge Fornero non è più così. Fatti salvi, infatti, i casi di licenziamento nullo (perché discriminatorio, ritorsivo, ecc.), in caso di licenziamento per giusta causa la reintegrazione viene disposta dal Giudice solo laddove venga accertato che non ricorrono gli estremi della giusta causa addotti dal datore di lavoro “per insussistenza del fatto contestato ovvero perchè il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”. In tutte le “altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi … della giusta causa” il Giudice deve dichiarare comunque “risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”.



Tutto chiaro quindi? Purtroppo no. Siccome la legge prevede la sanzione della reintegrazione in caso di “insussistenza del fatto contestato” e prevede altresì che in tutte le “altre ipotesi” in cui non ricorrono gli estremi della giusta causa rimane comunque ferma la cessazione del rapporto lavorativo, si potrebbe ritenere che un licenziamento basato su fatti effettivamente accaduti, ma di discutibile rilevanza disciplinare (una condotta sgarbata, il presentarsi a una riunione importante vestiti in modo inappropriato, il definire un superiore come “ossessivo”, e si potrebbe continuare) non potrebbe essere sanzionato con la reintegrazione (proprio perché il fatto contestato sussiste e perché si cadrebbe, allora, in una delle “altre ipotesi” per le quali la legge non prevedeva quella conseguenza).



Al riguardo, si è obiettato che un’interpretazione del genere sia eccessivamente favorevole al datore di lavoro (che potrebbe così giungere ad abusare del licenziamento per giusta causa), senonchè la Corte di Cassazione, in una sentenza del 2014 (n. 23669), ha affermato che “la tutela della reintegrazione trova spazio in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, verifica che si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto condotto senza margini per valutazioni discrezionali”. Non solo. A voler considerare il decreto del Jobs Act relativo al contratto “a tutele crescenti” (D. L.vo n. 23 del 4.3.2015) parrebbe che l’interpretazione permissivista dell’art. 18 sia stata avallata dallo stesso Legislatore. In quel decreto si è infatti stabilito che, in caso di licenziamento per giusta causa, la reintegrazione nel posto di lavoro possa avvenire solo a fronte della “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.

All’interpretazione che precede ha però posto freno la stessa Corte di Cassazione, intervenendo pochi mesi dopo l’entrata in vigore del richiamato decreto del Jobs Act e “rincarando la dose” con una sentenza depositata alla fine del settembre di quest’anno.

In particolare, con sentenza n. 20540 del 13 ottobre 2015 la Corte Suprema ha precisato che l’espressione “insussistenza” del fatto contestato (materiale o meno) si riferisce anche al caso di fatto sussistente (cioè effettivamente verificatosi) ma privo del carattere di illiceità, dal che consegue che anche in quell’ipotesi trova applicazione la reintegrazione. Analogo approccio interpretativo è stato tenuto dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 20545 pure del 13 ottobre 2015.

Da ultimo, con sentenza del 20 settembre 2016 n. 18418 la Cassazione ha ulteriormente precisato che “in sostanza, l’assenza di illiceità di un fatto materiale pur sussistente, deve essere ricondotta all’ipotesi, che prevede la reintegra nel posto di lavoro, dell’insussistenza del fatto contestato, mentre la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l’applicazione della tutela cd. reale”. A scanso di ogni possibile equivoco (ovvero per evitare il rischio che una valutazione sulla proporzionalità tra fatto e licenziamento possa condurre alla segnalata interpretazione dell’art. 18), la Corte Suprema ha chiarito “che non può ritenersi relegato al campo del giudizio di proporzionalità qualunque fatto (accertato) teoricamente censurabile ma in concreto privo del requisito di antigiuridicità, non potendo ammettersi che per tale via possa essere sempre soggetto alla sola tutela indennitaria un licenziamento basato su fatti (pur sussistenti, ma) di rilievo disciplinare sostanzialmente inapprezzabile”.

La sentenza del 2016 è di particolare interesse perché è stata confermata in sede di legittimità la carenza di rilevanza disciplinare di contestazioni mosse a un lavoratore che aveva avuto modi maleducati (ma non ingiuriosi) nei rapporti con il personale che egli aveva il compito di formare; che si era rifiutato di procedere alla rinegoziazione del suo superminimo (in difetto di un obbligo a sedersi a un tavolo per trattare); e che aveva lamentato (a suo dire) di essere stato demansionato. Si trattava certamente di comportamenti inadeguati e contrappositivi, ma non tali da giustificare un licenziamento in tronco.

Le sentenze della Corte di Cassazione pongono sicuramente freno a eventuali abusi del licenziamento per giusta causa, ma non risolvono (evidentemente) tutti i problemi: in certi casi può essere difficile capire se un comportamento intollerabile per l’azienda (che vuole conseguentemente licenziare il dipendente) lo sia anche per il Giudice. In quei casi un aiuto potrà venire dalle esemplificazioni contenute nel Contratto collettivo nazionale che si applica al rapporto di lavoro e che, nella stragrande maggioranza dei casi, contiene un elenco esemplificativo sia delle condotte che possono giustificare una sanzione disciplinare conservativa (rimprovero verbale, ammonizione scritta, multa e sospensione dal lavoro e dalla retribuzione), sia delle condotte che possono legittimare il licenziamento.

Non a caso, nella fattispecie considerata dalla sentenza del 2016, la Cassazione aveva osservato che comportamenti analoghi a quelli contestati al lavoratore risultavano puniti dal Contratto collettivo nazionale di lavoro con una sanzione conservativa.