La Corte di Cassazione, riunita a Sezioni Unite, con la recentissima sentenza n. 5072 del 15 marzo si è pronunciata sulle misure volte a prevenire e sanzionare l’utilizzo abusivo da parte della Pubblica amministrazione dei contratti di lavoro a termine, dirimendo un contrasto che si era formato negli ultimi anni in giurisprudenza. È noto che nel nostro ordinamento vige il principio, sancito dall’art. 97 della Costituzione, secondo cui agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede di norma mediante concorso. Il concorso, infatti, è stato ritenuto dai costituenti il metodo più adeguato per assicurare il principio di eguaglianza tra tutti i cittadini e per selezionare i lavoratori più meritevoli nell’interesse della collettività.



Senonché la difficoltà di bandire concorsi per le complessità connesse e anche, specie negli ultimi anni, per i “blocchi delle assunzioni” ribaditi dalle leggi di contenimento della spesa pubblica, hanno determinato un abnorme ricorso da parte della Pa ai contratti di lavoro a termine che non necessitano di norma di concorso per l’assunzione. Di qui il fenomeno sempre più diffuso del “precariato pubblico”, recentemente evidenziato dai media con particolare riguardo al comparto della scuola.



Al riguardo l’art. 36 del D. Lgs. 165/2001 (Testo Unico del Pubblico Impiego) ha ribadito il principio secondo cui la violazione delle disposizioni relative all’assunzione di lavoratori a termine non può in ogni caso comportare, in assenza di concorso, la costituzione di rapporti a tempo indeterminato. La medesima norma ha previsto che il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative da parte della Pubblica amministrazione.

Ben diversa è la disciplina del rapporto di lavoro nell’impiego privato, ove nelle assunzioni vige l’assoluta libertà dell’imprenditore costituzionalmente garantita e ove l’illegittima apposizione del termine comporta la costituzione di un rapporto a tempo indeterminato ed è altresì fonte di risarcimento del danno per il lavoratore. Tale risarcimento – aggiuntivo all’assunzione – è stabilito dalla L. 183/2010 in una un’indennità onnicomprensiva variabile tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità.



La Corte di Giustizia dell’Unione europea si è occupata, a più riprese, della compatibilità delle discipline nazionali sui rapporti di lavoro a tempo determinato con la Direttiva n. 1999/70/CE e con l’accordo quadro a essa allegato, dettando principi precisi e vincolanti per i legislatori e i giudici nazionali. In particolare, la Corte di Giustizia (con le sentenze Vassallo, Marrosu e Sardino) ha statuito che la normativa italiana in materia di abuso dei contratti a termine da parte di un datore di lavoro pubblico – che esclude la conversione in contratti a tempo indeterminato (differentemente da quanto avviene per i rapporti di lavoro “privati”) – non contrasta con i principi comunitari; e ciò perché sono previste altre misure (in materia di durata e rinnovo dei contratti e di risarcimento del danno al lavoratore) che hanno un’efficacia dissuasiva e non sono sfavorevoli rispetto al settore privato. 

Quanto alla prova dell’esistenza del danno e del suo ammontare, la giurisprudenza comunitaria (Ord. Papalia) ha affermato che la normativa italiana dettata dall’art. 36 D. Lgs. 165/2001 è illegittima ove il lavoratore debba “fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione“; e ha altresì statuito che spetta al giudice nazionale valutare in che misura le disposizioni italiane che sanzionano l’utilizzo abusivo dei contratti a termine da parte della Pubblica amministrazione siano conformi con i principi comunitari. 

Sulla scorta dei principi espressi dalla Corte di Giustizia, i giudici nazionali si sono occupati di verificare quali fossero in concreto le misure destinate a evitare e sanzionare l’utilizzo illegittimo dei contratti a termine. La Cassazione ha espresso varie soluzioni, pur ribadendo il principio dell’inammissibilità della conversione del contratto a termine illegittimo in contratto a tempo indeterminato.

In particolare, con le sentenze 24781/2014 e 1260/2015 la Cassazione ha affermato che il danno liquidabile al lavoratore deve essere quello “comunitario”, con ciò dando espressamente ingresso a una fonte normativa derivante dalla Corte di Giustizia. In tale prospettiva, il risarcimento del danno deve configurarsi come una sorta di sanzione automatica a carico del datore di lavoro discendente dalla mera violazione della legge e il lavoratore è esonerato dal provare di avere effettivamente subito un danno; e ciò in discontinuità con i tradizionali principi dell’ordinamento italiano, fatti propri per decenni dai giudici nazionali, secondo cui il danno è di norma liquidabile ove si provi un pregiudizio effettivo.

Per quanto concerne la misura risarcitoria, le citate sentenze hanno ritenuto che il parametro per la liquidazione del danno sia quello indicato dall’art. 8 L. 604/1966 che prevede un risarcimento tra 2,5 e 6 mensilità per il lavoratore illegittimamente licenziato da un datore di lavoro con meno di 15 dipendenti. La Cassazione ha altresì precisato che il più favorevole parametro dell’art. 18 Statuto dei lavoratori utilizzato da alcune sentenze – che quantifica in 20 mensilità il “valore” del rapporto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato da un datore di lavoro con più di 15 dipendenti – è improprio perché tale norma non ha alcuna attinenza con il lavoro pubblico. Con altra sentenza (19371/2013) la Cassazione ha invece ritenuto che il criterio più appropriato per la commisurazione del danno sia quello stabilito dalla L. 183/2010 sopra citata.

Dinnanzi a questo diversificato panorama giurisprudenziale le Sezioni Unite della Cassazione, con la citata sentenza del 15 marzo, sono intervenute per dirimere il contrasto. La Cassazione ha anzitutto ritenuto che i criteri forniti dall’art. 8 L. 604/1966 e dall’art. 18 Stat. Lav. non sono adeguati poiché il lavoratore pubblico precario non perde alcun posto di lavoro alle dipendenze della Pubblica amministrazione, al quale non avrebbe mai avuto diritto in mancanza di concorso. Secondo la Corte, “il lavoratore a termine nel pubblico impiego, se il termine è illegittimamente apposto, perde la chance della occupazione alternativa migliore e tale è anche la connotazione intrinseca del danno“.

Pertanto, il criterio risarcitorio che rispetta i principi comunitari di effettività, equivalenza e dissuasività è, secondo le Sezioni Unite, quello dettato dalla L. 183/2010 (risarcimento forfettizzato tra 2,5 e 12 mensilità previsto per il lavoratore privato). La Corte di Cassazione ha precisato che “la misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, è proprio in questa agevolazione della prova”. Infine, le Sezioni Unite hanno precisato che il risarcimento del danno comunitario può comunque cumularsi con il danno ulteriore ove il lavoratore provi di avere perso chances di lavoro per essere stato impiegato in reiterati contratti a termine abusivi. 

La Corte ha affermato, a chiare lettere, l’esistenza di un risarcimento del “danno comunitario”, svincolato da qualsiasi prova in ordine alla sussistenza di un pregiudizio e inteso come sanzione discendente dall’illegittima apposizione del termine. Con ciò sarà più facile per il lavoratore pubblico ottenere il risarcimento del danno nei casi di precarizzazione cronica del rapporto e dovrebbe altresì diminuire l’utilizzo indiscriminato dei contratti di lavoro a termine da parte della Pa che sta nel contempo attuando vari processi di “stabilizzazione dei precari”.