È noto come il d.lgs. n. 509 del 1994 abbia disposto la trasformazione in persone giuridiche di diritto privato di una serie di enti pubblici gestori di regimi di previdenza obbligatoria, tra i quali quelli dei liberi professionisti. La cosiddetta privatizzazione degli enti previdenziali trova la sua ragione “politica” nell’interesse delle categorie professionali a sottrarsi sia alla prospettata unificazione degli stessi, sia alla riforma del 1995, in particolare all’introduzione del sistema di calcolo contributivo. Difatti, l’art. 3, co. 12, l. n. 335 del 1995 consente agli enti privatizzati di “optare” per tale sistema. 



La legge del 1994 precisa che «gli enti trasformati continuano a svolgere le attività previdenziali ed assistenziali» a carattere obbligatorio a favore delle categorie di riferimento, così come resta obbligatoria l’iscrizione alla cassa e l’obbligo di contribuzione. Secondo la Corte costituzionale, la trasformazione «ha lasciato immutato il carattere pubblicistico dell’attività istituzionale di previdenza ed assistenza svolta dagli enti, articolandosi invece sul diverso piano di una modifica degli strumenti di gestione e della differente qualificazione giuridica dei soggetti stessi» (Corte cost. n. 248 del 1997). 



Per altro verso, mentre prescrive alle casse di «assicurare l’equilibrio di bilancio» e la stabilità finanziaria di lungo periodo (50 anni dopo la riforma Fornero) e riconosce loro autonomia gestionale, organizzativa e contabile, la legge esclude finanziamenti diretti o indiretti dello Stato a loro favore. Ciò significa, come ha ribadito più volte la Corte costituzionale, che la previdenza libero-professionale deve autofinanziarsi ed è escluso qualsiasi intervento dello Stato anche in caso di fallimento. È evidente, pertanto, quanto sia importante per le casse l’autonoma disponibilità delle proprie risorse, derivanti dalla contribuzione degli iscritti e dalla gestione del patrimonio.



In concomitanza con la crisi, invece, è accaduto che, qualificando la casse quali “amministrazioni pubbliche”, il legislatore le abbia chiamate a partecipare alle politiche di contenimento della spesa pubblica per il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica stabiliti dall’Unione europea. Sennonché, mentre dapprima venne loro richiesto un contributo in termini di “contenimento delle spese”, con effetti, perciò, interni alla singola cassa, l’art. 8, co. 3, d.l. n. 95 del 2012 ha previsto che i risparmi realizzati fossero annualmente riversati nel bilancio statale, senza tener minimamente conto sia della specifica finalità di quelle risorse, sia della loro diretta provenienza dagli iscritti, ciò che configurava, invece, una “nuova” entrata di bilancio.

Di tale norma, la Corte costituzionale ha ora dichiarato la contrarietà agli art. 3, 38 e 97 Cost. con sentenza n. 7 del 2017, riguardante la cassa dei dottori commercialisti, ma dalla portata che si estende alle altre casse. La sentenza, peraltro, non è importante solo per la soluzione del caso concreto. Le argomentazioni addotte, infatti, aiutano a far chiarezza sulla posizione delle casse nell’ordinamento, soprattutto sul piano dei rapporti con il legislatore.

Cosa dice allora la Corte costituzionale? Innanzitutto, in premessa, ribadisce che la regola dell’autofinanziamento esclude qualsiasi intervento finanziario dello Stato, anche in presenza di squilibri finanziari o fallimento delle casse. Quanto alla qualifica di “pubblica amministrazione”, ne viene confermata la legittimità e al contempo delimitata l’area degli effetti. Osserva, infatti, la Corte che essa «provvede ad assicurare il coordinamento della finanza pubblica allargata per il raggiungimento degli obiettivi concordati in sede europea», mentre si esclude l’esistenza di un nesso di causalità tra tale qualifica e l’obbligo di riversamento al bilancio statale dei risparmi realizzati. 

Ciò significa che un tale obbligo non è giustificabile in base alla suddetta qualifica, cosicché la sua legittimità va valutata alla luce dei principi costituzionali. Al riguardo, i giudici, da un lato, non escludono «in astratto…la possibilità per lo Stato di disporre, in un particolare momento di crisi economica, un prelievo eccezionale anche nei confronti degli enti che…sostanzialmente si autofinanziano attraverso i contributi dei propri iscritti». Dall’altro, ne stabiliscono le condizioni di legittimità, in relazione agli art. 3, 38 e 97 Cost.

Sotto il profilo della ragionevolezza (art. 3 Cost.) queste sono individuate nella proporzionalità e adeguatezza tra il sacrificio imposto e l’obiettivo perseguito, in relazione agli interessi in gioco. Nel caso di specie l’interesse istituzionale a garantire la tutela previdenziale, connotato «dalla necessaria autosufficienza della gestione pensionistica», si confronta con «un generico interesse dello Stato ad arricchire, in modo peraltro marginale, le proprie dotazioni di entrata» e dunque a tal fine appare sproporzionato il sacrificio del principio della sana gestione finanziaria delle casse.

Anche sotto il profilo dell’art. 97 assume preminente rilievo la specifica modalità di finanziamento delle casse quali pubbliche amministrazioni. Dato l’autofinanziamento, infatti, le spese di gestione «devono essere ispirate alla logica del massimo contenimento e della massima efficienza»: ciò che si realizza se i risparmi restano acquisiti al patrimonio dell’ente, ma non ove abbiano una destinazione esterna. Quanto all’art. 38 Cost., infine, è il sistema mutualistico, quindi ancora autofinanziato, che «merita di essere preservato da meccanismi in grado di scalfirne gli assunti di base».

E come accennato, la sentenza travalica il caso di specie, come la Corte costituzionale mostra di aver presente quando riferisce l’incoerenza della norma scrutinata non già al singolo regime della cassa dei dottori commercialisti, bensì all’«ordinamento previdenziale» disegnato dalla legge del 1994 in senso mutualistico. In termini generali, infatti, se la scelta dell’assetto organizzativo degli enti previdenziali spetta al legislatore, una volta scelto, quello basato sul principio mutualistico «deve essere preservato in modo coerente con l’assunto dell’autosufficienza economica, dell’equilibrio della gestione e del vincolo di destinazione tra contributi e prestazioni». 

A questo punto l’alternativa per il legislatore è chiara: o cambia radicalmente il sistema oppure riconosce alle casse l’autonomia, i poteri e gli strumenti necessari a realizzare le finalità loro attribuite. Quello che non può, né conviene fare, è continuare a navigare a vista.