Comprendere la complessità del mercato del lavoro è un’impresa tutt’altro che semplice. L’Italia è da anni un Paese con livelli di disoccupazione superiori alla media europea. Se nel periodo post-crisi economica del 2007-2010 solo Grecia e Spagna presentavano tassi di disoccupazione maggiori, negli ultimi mesi (i dati diffusi da Eurostat, destagionalizzati, corretti cioè per l’effetto dovuto alle variazioni stagionali, si riferiscono ai mesi estivi di luglio e agosto 2023, gli ultimi disponibili), con un tasso di disoccupazione intorno al 7,4%, pur migliorando, l’Italia fa registrare una prestazione migliore solo a Grecia, Spagna e Svezia.
Eppure, nonostante questo, le aziende faticano a trovare lavoratori. Questo apparente paradosso deriva dai cosiddetti mismatch occupazionali, che determinano un’inefficiente allocazione dei richiedenti lavoro e di coloro che, invece, i posti di lavoro li offrono. In altre parole, da una parte, abbiamo aziende che faticano a trovare lavoratori con le competenze di cui hanno bisogno e, dall’altro, numerosi aspiranti lavoratori che si presentano sul mercato del lavoro con competenze diverse da quelle attese dalle aziende.
Anche tra coloro che lavorano, poi, di frequente l’allocazione non risulta ottimale, essendo frequenti i casi di persone altamente qualificate che svolgono mansioni per le quali è richiesto un livello di istruzione più basso o competenze inferiori o, sebbene in casi più rari, si osservano persone che ricoprono incarichi per i quali non sono sufficientemente qualificati o istruiti. Queste tipologie di disallineamenti si denominano, rispettivamente, educational e skill mismatch.
Come documentato dal Cedefop, l’Agenzia dell’Unione europea che dal 1975 svolge un ruolo chiave nella definizione delle politiche europee in materia di istruzione e formazione professionale, il problema non è esclusivamente italiano. In tutta Europa si registra una carenza di competenze relative alle professioni di livello elevato, quali professionisti del settore ICT, medici, professionisti in campo scientifico, tecnologico, ingegneristico.
Si percepisce, cioè, in Italia come in Europa, sia una sensibile distanza tra la frequenza di corsi formativi di alto livello e le possibilità occupazionali specifiche, sia un’insufficiente preparazione tecnica al conseguimento del diploma o della laurea ai fini di un immediato inserimento professionale.
Un recente articolo di Confartigianato, pubblicato lo scorso 25 luglio, ci informa che le imprese dichiarano di avere difficoltà nel reperire quasi la metà (47,9%) delle figure professionali di cui hanno bisogno, e che questa quota sale al 56,6% se si fa riferimento agli operai specializzati e conduttori di impianti e macchine e addirittura al 70% nel caso si abbia bisogno di operai specializzati nelle costruzioni, fonditori, saldatori e montatori di carpenteria metallica.
Questi dati, forse a molti poco conosciuti, ma che sono evidenti da tempo, aprono nuovi interrogativi e, soprattutto, richiedono urgenti interventi mirati. Le politiche necessarie per favorire una riduzione di questi mismatch occupazionali dovrebbero rivolgersi infatti a più livelli e interlocutori, ma per la definizione di un efficace piano di intervento occorre partire dall’individuazione delle cause da cui derivano.
In primo luogo, occorre analizzare l’offerta del sistema educativo italiano, di livello sia medio che elevato, guardando quindi sia ai licei che agli istituti tecnici e professionali, nonché alle università. È evidente, infatti, che con riferimento alla richiesta di operai specializzati occorrerebbe rivedere i percorsi formativi esistenti nelle scuole di secondo grado di contenuto tecnico e professionale. Con riferimento alle professioni dalle competenze più elevate, invece, nella maggior parte dei casi l’offerta formativa esiste, ma viene scelta da un numero esiguo di persone e meno ancora sono quelle che riescono a terminare il loro percorso di studio. Un discorso a parte, poi, meritano gli ITS, ovvero di Istituti Tecnici Superiori di terzo livello (ossia post-diploma di scuola superiore), ancora poco diffusi in Italia, ma che sarebbero in grado di rispondere alla esigenza di formare tecnici specializzati di livello elevato.
È evidente, allora, che occorre ripensare agli sbarramenti in ingresso di alcuni corsi di studio, come quelli del campo sanitario, e spingere decisamente per un’azione di orientamento, ivi compresi i Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO), che da qualche anno hanno sostituito la cosiddetta Alternanza scuola-lavoro, che piuttosto che essere stimolati a monte dalle poche opportunità offerte dal territorio, siano coscientemente scelti dalle scuole, sulla base dell’opportuna conoscenza di quali sono le specializzazioni cui si collegano i maggiori sbocchi occupazionali.
Vi sono poi importanti fattori demografici e culturali da considerare. Con riferimento ai primi, la denatalità ha fatto sì che nell’ultimo decennio i giovani under 35 attivi sul mercato (occupati o in cerca di occupazione) si siano ridotti di oltre mezzo milione di unità. Da sempre, poi, in Italia anche tra i giovani è molto più frequente il fenomeno dell’inattività, ovvero di coloro che non studiano e non cercano lavoro, riducendo drasticamente il potenziale produttivo e di crescita del Paese.
Dall’altra parte, ci sono i fenomeni migratori, la cui analisi indica l’incapacità dell’Italia, da un lato, di attrarre la manodopera più qualificata e, dall’altro, di trattenere all’interno del Paese i giovani più qualificati che, in assenza di un sistema di compensi concorrenziali con quelli delle imprese di altri Paesi europei e che dia fiducia ai giovani, molto spesso decidono di intraprendere una carriera all’estero.
La questione va affrontata con estrema urgenza, se si pensa che la rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo e la spinta trainata dall’intelligenza artificiale stanno per rivoluzionare totalmente le professioni esistenti. Si è stimato (lo studio realizzato da Manpower Group, Ernst & Young e Pearson – “Professioni 2030: il futuro delle competenze in Italia”), infatti, che a seguito di questa rivoluzione tecnologica circa il 50% delle professioni esistenti oggi scomparirà nell’arco dei prossimi 20-30 anni. Ciò comporta, quindi, la necessità di dare avvio a una profonda revisione degli attuali percorsi formativi, ma anche di promuovere, nell’ambito delle politiche attive del lavoro, molti corsi di formazione extrascolastici finalizzati a creare le nuove competenze e a favorire la conversione di quelle già acquisite dall’attuale forza lavoro, affinché l’impatto di tali cambiamenti non produca licenziamenti e un ulteriore aumento della disoccupazione.
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