Qual è la visione, la direzione culturale, di questo Governo e delle parti sociali in materia di lavoro? Nonostante gli stupefacenti dati sull’occupazione (mai così tante persone al lavoro da quando esistono le statistiche Istat) e sulla disoccupazione (in molte regioni i valori sono addirittura inferiori alla percentuale fisiologica di piena occupazione), che disinnescano ogni polemica sulla “quantità” del lavoro, è conflittualmente aperto il confronto sulla “qualità” dei tanti posti di lavoro creati nel corso degli ultimi due anni.
Per la Cgil la qualità deriva quasi matematicamente dalle tipologie contrattuali diffuse e dal regime di “proprietà” del posto di lavoro (più è difficile licenziare, meglio è). Su questi argomenti vertono tre dei quattro quesiti referendari recentemente approvati dalla Cassazione, ora al vaglio della Corte Costituzionale. Non è difficile prevedere che il confronto sul Jobs Act (a 10 anni esatti dalla sua approvazione…!) e sui contratti a termine sarà uno dei capitoli lavoristici dei prossimi mesi. Un dibattito piuttosto surreale, se si considera la costante crescita dei contratti a tempo indeterminato e la diminuzione di quelli a termine, oltre che il modesto numero di licenziamenti in quella che, non a caso, è definita l’epoca delle “grandi dimissioni”, effetto della contemporanea crescita del mercato del lavoro e della diminuzione dei lavoratori per ragioni demografiche (si tratta della crisi da offerta di lavoro che attanaglia il nostro Paese dalla fine del periodo pandemico).
I recentissimi interventi di legge di iniziativa governativa sembrano propendere per una definizione di qualità connessa alla semplificazione degli adempimenti procedurali. L’11 dicembre il Senato ha approvato definitivamente il Ddl Lavoro collegato alla Legge di bilancio 2024 (quella dello scorso anno), un articolato di 33 articoli che introducono norme essenzialmente procedurali, con particolare riferimento ai temi della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, alla disciplina dei contratti individuali di lavoro, agli adempimenti contributivi e alla rivisitazione degli ammortizzatori sociali. Particolarmente interessanti le disposizioni dedicate alle “dimissioni per fatti concludenti” (molto criticate dall’opposizione, ma volte a risolvere un problema effettivo) e alla nuovissima filiera dell’apprendistato duale. Si tratta, anche in questi casi, di soluzioni di carattere pratico, difficilmente interpretabile in chiave progettuale.
Medesima la chiave di lettura della conferma dei fringe benefit a 1.000 euro per tutti e 2.000 euro per i lavoratori con figli a carico per il prossimo triennio contenuta nella Legge di bilancio 2025, che ha appena concluso la prima lettura alla Camera. Il Governo ha preferito una disposizione a tempo, piuttosto che la strutturazione definitiva del nuovo valore (in continua evoluzione dal 2020) all’articolo 51, comma 3 del Testo unico delle imposte sui redditi, che pure è appena stato aggiornato nello schema di decreto legislativo che adempie alla delega della legge fiscale approvato in Consiglio dei ministri il 3 dicembre.
Le associazioni datoriali faticano a condividere una linea costruens sulla qualità del lavoro del futuro. Non mancano le iniziative e le prese di posizione, anche comuni, ma sono il più delle volte forme di reazione a qualche proposta non condivisa e, soprattutto, occasioni per avvisare la politica che tutti i dati industriali prospettano nubi grigie e cariche all’orizzonte (si vedano le ultime analisi congiunturali pubblicate da Federmeccanica, un macigno anche sulle procedure di rinnovo di uno dei Contratti collettivi nazionali più importanti del nostro Paese). La lettera congiuntamente sottoscritta da Abi, Ania, Confcommercio, Confcooperative, Confindustria e Legacoop per chiedere al Parlamento di stralciare quanto presentato in bozza e approvare criteri oggettivi nella definizione delle associazioni rappresentative nell’ambito del decreto legislativo correttivo del “Codice degli appalti pubblici” ha colto nel segno e ha convinto il Consiglio dei ministri del 23 dicembre a modificare il decreto correttivo al D.lgs. 37/2023. La risoluzione di un problema specifico, più che una bussola per le riforme future.
In questo contesto, la novità culturale, prima ancora che legislativa, che potremmo osservare nel 2025 è l’approvazione delle legge di iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratori alla governance aziendale promossa dalla Cisl e fatta propria dai partiti di maggioranza. Un’intuizione legislativa che, affermando una dinamica cooperativa nelle relazioni di lavoro, intende accrescere i salari medi e mediani (dopo l’ideologico dibattito tutto attorcigliato su quelli minimi) e responsabilizzare la contrattazione collettiva e il sindacato. Nella Legge di bilancio approvata alla Camera è disposto lo stanziamento di 70 milioni per l’anno 2025 per l’incoraggiamento di iniziative in materia di partecipazione gestionale, partecipazione economico-finanziaria, partecipazione organizzativa e partecipazione consultiva. Risolto il nodo delle risorse, ora il Parlamento può procedere con la legge che dopo oltre 75 anni adempie quanto previsto dall’articolo 46 della Costituzione: il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione dell’impresa in armonia con le esigenze della produzione.
Non saranno pochi coloro che proveranno a ostacolare l’iter di approvazione, così come coloro che si affretteranno a ridurre la portata della legge, scegliendo la via sempre affollata (perché comoda) del benaltrismo giuridico, economico o politico. Non è comunque il destino delle proposte che hanno il coraggio della visione quello di piacere a tutti, anche se degli esiti benefici beneficeranno anche coloro che le criticano.
@EMassagli
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