Nel suo intervento del 29/11/2021 sul Sole 24 Ore Francesco Verbaro paventava il rischio che l’introduzione della quarta area nel lavoro pubblico si riducesse a un “promuovificio”. Lo sviluppo della contrattazione collettiva del comparto Funzioni Locali, a un passo dalla definizione, rende sempre più concreto il rischio di un ritorno al passato, nel quale la Pa assicurava una carriera a tutti, anche senza badare per il sottile e, quindi, facendo a meno di selezionare i dipendenti sulla base di titoli di studio adeguati al ruolo da ricoprire.



Infatti, le bozze del Ccnl prevedono che le amministrazioni pubbliche potranno attivare le “procedure comparative” finalizzate alle progressioni verticali, cioè le promozioni da una qualifica più bassa a una più elevata, «anche in deroga al titolo di studio richiesto per l’accesso dall’esterno».



Con un salto indietro di decenni si tornano a consentire le progressioni verticali, cioè appunto le promozioni, non solo senza concorso pubblico con riserva di posti e con incerte “procedure comparative”, ma anche senza nemmeno il necessario titolo di studio, sostituito dall’istituto che tutti vogliono, ma nessuno osa nominare: la cara, vecchia (appunto) anzianità.

La laurea e il diploma? Qualche anno di “esperienza” e non saranno più necessarie. Le progressioni verticali, pur essendo alternative a quei concorsi che si afferma siano necessari per ringiovanire la Pa e soprattutto arricchirla di professionalità nuove ed elevate, saranno aperte a tutti, a prescindere dal titolo di studio e sulla base appunto della permanenza in servizio: esattamente il modo per garantire che nel tempo la Pa resti anziana com’è e a forte rischio di obsolescenza delle competenze e di carenza di professionalità.



Certo, non si deve generalizzare: si hanno sicuramente casi di valenti lavoratori pubblici, capaci di maturare abilità e appunto competenze operative sul lavoro, tali da poter accedere a posti di maggiore responsabilità ed efficienza ed è, in astratto, anche corretto immaginare percorsi di carriera che non siano ostacolati dalla barriera dei concorsi. Il problema, tuttavia, resta sempre quello dell’ambiente nel quale si opera. Nel settore privato l’anzianità e la vera esperienza e competenza è un valore, peraltro sperimentabile. Il lavoratore può essere messo alla prova attraverso l’attribuzione delle mansioni superiori e il meccanismo della definitiva acquisizione delle mansioni stesse, a seguito di un periodo di osservazione, è piuttosto di frequente il metodo selettivo adottato per la crescita professionale dei lavoratori. Nel sistema pubblico, l’applicazione del consolidamento della qualifica connessa alle mansioni superiori svolte, invece, è vietato. Sancisce l’articolo 52, comma 1, del d.lgs 165/2001: “L’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore o dell’assegnazione di incarichi di direzione”.

Un divieto discendente dalla diffidenza nei confronti dell’operato della macchina pubblica: il rischio che le carriere possano essere agevolate da spinte connesse all’appartenenza partitica è molto elevato. Quindi, si fa a meno di una leva di crescita professionale sul campo e si lascia la progressione di carriera alla trafila dei concorsi.

Salvo, tuttavia, prevedere strumenti specifici e particolari, che non si fa fatica a qualificare come ipocriti. Mentre, infatti, si nega nel sistema pubblico l’applicazione dell’anzianità come strumento per gli aumenti del trattamento economico, la nuova stagione dei Ccnl regola le progressioni orizzontali, quelle che appunto fanno crescere gli stipendi, dando nuovo e maggiore peso alla mai definita e definibile “esperienza” professionale, un modo per valorizzare l’anzianità senza dirlo. E, contestualmente, si apre la carriera e si favoriscono le promozioni anche a chi, carente dei necessari titoli di studio, non potrebbe nemmeno partecipare a un concorso pubblico, mediante le impalpabili procedure comparative delle progressioni verticali, nelle quali, come si nota, l’anzianità di servizio – sempre dissimulata dietro all’esperienza professionale – sarà sostitutiva di diplomi, lauree,  specializzazioni, master.

Le bozze contrattuali, certo, prevedono che l’anzianità sia corroborata da valutazioni “positive”. Peccato che mai nessuno abbia mai definito il concetto di valutazione positiva. E, soprattutto, peccato che i sistemi di valutazione siano da sempre il tallone d’Achille del sistema del lavoro pubblico, in quanto nella grandissima parte dei casi del tutto incapaci di misurare i risultati svolti e il concreto apporto di ciascun dipendente.

I sistemi di valutazione sono per lo più fumose e complicate sovrastrutture, piene di tabelle, algoritmi, criteri, che si riducono alla fine nella famosa “pagella”, che tutto misura salvo la produttività e, soprattutto, la competenza, cioè la specifica capacità di svolgere con correttezza e valore aggiunto le mansioni. Finché continueranno a esistere sistemi che non fissano la soglia della valutazione “positiva” e che valuteranno sulla base di criteri astratti e totalmente incapaci di dire nulla su risultati conseguiti e competenze acquisite (l’orientamento al cliente, la capacità di proporre, le interrelazioni con gli uffici, la flessibilità, ecc.), nessuna valutazione solo formale potrà accompagnare in modo convincente l’anzianità di servizio quale strumento per le verticalizzazioni di chi non possieda i titoli di studio necessari.

Lo spettro del “promuovificio” appare tutt’altro, quindi, che fugato. Poi, è evidente che gli strumenti normativi e contrattuali di per sé non sono mai positivi o negativi: utilizzandoli bene, possono condurre a risultati più che utili.

Purtroppo, la prassi e la conoscenza dell’estrema debolezza delle Pa come datori e contraenti, insegnano che progressioni tanto economiche, quanto di carriera (orizzontali e verticali) costituiscono oggetto quasi univoco delle relazioni sindacali (nonostante le progressioni verticali non siano materia di contrattazione e nemmeno di confronto), rispetto alle quali l’atteggiamento datoriale, fortemente influenzato dalla necessità di acquisire e mantenere consenso politico, da un lato, e tregua da conflitti sindacali, dall’altro, induce a estendere aumenti e promozioni a dismisura. Esattamente come avvenuto tra il 1999 e il 2009, i primi 10 anni di applicazione della contrattualizzazione del rapporto di lavoro: anni nei quali, almeno negli enti locali, in media ogni dipendente ottenne 3 aumenti di stipendio e 1,2 lavoratori ottennero progressioni verticali. Una slavina alla quale il ministro della Funzione pubblica di allora cercò di porre rimedio, prevedendo che le progressioni verticali si potessero ottenere solo con la partecipazione a concorsi pubblici con riserva di posti e tanto di possesso del necessario titolo di studio per l’accesso. Quello stesso ministro, adesso, prevede il contrario con una spettacolare virata, mirante a tenere insieme l’impossibile: ringiovanimento dei ranghi, alta specializzazione e caccia alle competenze specifiche denotate dai titoli di studio e le promozioni per anzianità e procedure interamente riservate a personale interno anche senza titolo di studio. È davvero questo quel che si intende per “nuova Pa”? È così che la si rende “attrattiva” per chi intenda investire in studio e titoli?

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