Il termine “patto sociale” sta tornando di moda. Era al centro del recente Congresso della Cisl. In marzo i Segretari generali di Cgil, Cisl e Uil Maurizio Landini, Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri hanno firmato insieme al Premier Mario Draghi e al ministro Renato Brunetta il “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale”. Alcuni lo leggono come la premessa di un “patto” simile all'”accordo di San Tommaso” concluso una trentina di “parti sociali” ai tempi del Governo Ciampi, ossia trenta anni fa, quando l’obiettivo di fondo era domare l’inflazione. Oggi, cronisti economici repentinamente trasformatisi in economisti, discettano che si deve trattare di un “patto per la produttività”.



Occorre fare un po’ di chiarezza. Il manualetto Simoni (uno dei testi gli studenti che hanno studiato poco utilizzano per prepararsi agli esami) così illustra il “patto sociale”: “Accordo di politica economica tra i sindacati dei lavoratori, gli imprenditori e il governo, allo scopo di regolare gli aumenti salariali e la dinamica dei prezzi. Si tratta, dunque, di un importante strumento nella lotta all’inflazione, che tende a realizzare condizioni di stabilità, nel sistema economico, atte a favorirne lo sviluppo e il pieno utilizzo delle risorse. Il ricorso al patto sociale è giustificato nel caso di inflazione da salari, quando, cioè, gli aumenti dei prezzi sono provocati da un eccessivo aumento salariale rispetto alla crescita della produttività del lavoro. Attraverso il patto sociale, infatti, il salario viene ancorato alla produttività del lavoro, mantenendo così stabile la quota dei profitti e quindi dei prezzi. Nello stesso tempo, la realizzazione della stabilità delle condizioni economiche e la salvaguardia dei margini di profitto dovrebbero incoraggiare gli investimenti, favorendo così lo sviluppo economico del Paese. Il patto sociale, quindi, si concretizza, sostanzialmente, in una politica dei redditi, in base alla quale le diverse classi sociali rinunciano alle rivendicazioni salariali allo scopo di promuovere il benessere della collettività. In questo modo, la distribuzione dei redditi viene stabilizzata In Italia, la concertazione fra le parti sociali che ha caratterizzato le politiche dei Governi Amato, Ciampi e Prodi presenta numerose affinità con il patto sociale”. 



Quindi, di questi tempi, un “patto sociale” sarebbe se non per domare un’inflazione, per ora molto sostenuta ma solo agli inizi (e di cui le autorità monetarie e di bilancio hanno appreso molte lezioni su come gestirla negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso), per alleviarne il peso sulle fasce sociali più deboli. Quindi, poco o nulla a fare con la produttività.

L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), creata nel 1919 e unica, tra le agenzie specializzate Onu, nei cui organi di governo siedono i rappresentanti non solo degli Stati membri ma anche delle parti sociali, è la migliore fonte d’informazione sui “patti sociali”. È stata fondata nell’assunto che senza social dumping e con standard simili in materia lavoristica e sociale, si potrebbero evitare cause di conflitti tra Stati; a sua volta, la definizione di regole lavoristiche e sociali internazionali (le “convenzioni internazionali” Oil) presuppone regole interne elaborate tramite specifici “patti”. L’Oil produce, inoltre, analisi comparate di “patti sociali” e dei loro effetti. Dal più recente si ricava, in primo luogo, che i “patti sociali” non sono più di moda come lo erano una volta. Il lavoro sottolinea che negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, “patti sociali”, diretti principalmente alla “politica dei prezzi e dei redditi”, sono stati uno strumento importante di politica economica in Europa (molto meno, però, negli altro continenti) e che negli ultimi vent’anni del ventesimo secolo sono diventati una delle leve (non necessariamente la più importante) che hanno portato all’unione monetaria. Hanno ampliato i loro obiettivi per includere la giustizia sociale. Mentre un documento precedente Oil tracciava un’ampia tassonomia dei “patti”, il più fresco si limita ad analizzare i casi di Finlandia, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Portogallo, Slovenia e Spagna.



Dai due documenti, si possono ricavare alcune indicazioni. In primo luogo, i “patti” possono essere classificati in due vaste categorie: quelli difensivi – diretti a tutelare l’esistente (a volte con un occhio rivolto al passato) – e quelli aggressivi – diretti, invece, a facilitare l’adattamento d’un’economia e di una società a un contesto in rapida evoluzione e a far da guida al cambiamento. In Italia, il ciampiano Patto di San Tommaso del 1993 e il prodiano Accordo di Natale del 1998 sono esempi della prima categoria, mentre il Patto di San Valentino del 1984 e il Protocollo sul Welfare del 2007 contengono cenni della seconda. Il precursore dei patti aggressivi è l’olandese “accordo di Wassenaar” del 1982 (dal nome della cittadina dove venne siglato) in cui le parti sociali e la coalizione in cui la sinistra e la destra erano al Governo e il centro all’opposizione, rivoluzionarono normativa sul lavoro, pensioni e welfare in generale di fronte alla constatazione che per quadrare i conti operando unicamente sull’età legale della pensione di vecchiaia (a ragione della più lunga aspettativa di vita) e con ritocchi negli altri capitoli, la si sarebbe dovuta portare a 81 anni. 

Un esame dei “patti” più recenti, da un lato, riconferma la differenza tra quelli difensivi e quelli aggressivi e, da un altro, ne tratteggia le modalità di gestazione: a) tripartiti (Irlanda, Italia e Portogallo) in cui il Governo è fortemente coinvolto nella preparazione, firma e monitoraggio del “patto”; b) bipartiti (Olanda e Finlandia) in cui il negoziato avviene tra parti sociali e al più, quando è terminato, il Governo comunica di compiacersi per l’accordo raggiunto; c) misto (Spagna) il cui il Governo opera attivamente ma da dietro le quinte. Il terzo, pare, essere il più efficace specialmente se concentrato su un numero limitato di obiettivi.

Quale “patto” sarebbe utile adesso? Uno offensivo che faccia piazza pulita (o quasi) dei disincentivi e/ all’incoraggiamento al lavoro illegale o alegale (a cominciare dal Reddito di cittadinanza), che promuova la concorrenza e quindi la produttività in settori “protetti” (concessioni balneari, taxi, ecc., anche i notai), che faccia una vera pulitura delle tax expernditures a vantaggio di alcuni comparti delle imprese del manifatturiero e dei servizi. E via discorrendo. E liberi risorse per i ceti più colpiti dagli aumenti dei prezzi. 

È questo che intendono coloro che oggi propongono un “patto sociale”?

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