Un qualunque venditore di auto usate si ingegnerebbe a presentare, nel migliore dei modi, il suo parco macchine agli eventuali clienti, facendo sentire il rombare del motore nonostante i km accumulati, mostrando il buono stato della carrozzeria nonostante i segni di una riparazione, la regolarità dei documenti e la relativa condizione degli accessori di bordo. Tutto ciò con il massimo di onestà e di trasparenza, senza cioè nascondere i difetti o scaricare il contachilometri. Nessuno potrebbe fare quel mestiere si fosse il primo a screditare la sua merce e a convincere gli eventuali acquirenti che il prezzo di vendita è esagerato. Magari potrebbe fare una filippica contro la casa produttrice sostenendo che le sue vetture sono scadenti anche da nuove, figurarsi da usate. Come se avesse avviato quell’impresa non per assicurare un reddito per sé e la sua famiglia, ma soltanto per condannare alla rottamazione i modelli prodotti da una casa automobilistica con cui ha dei conti da regolare per motivi politici e/o personali.



Anche un avvocato si guarderebbe bene dal ricevere un nuovo cliente annunciandogli che il suo studio perde tutte le cause, Mentre un chirurgo non si vanterebbe per quanti pazienti siano passati a miglior vita sotto i suoi ferri. Se poi l’imprenditore, l’avvocato e il medico fossero i primi a screditare la loro professionalità inventandosi errori e difetti determinati dal contesto in cui operano che li costringe a performance non all’altezza dei loro compiti, costoro darebbero segni di squilibrio mentale determinati da una grave forma di paranoia: una malattia che si connota per il procedere in modo lucido e coerente sulla base di un’idea di fondo delirante.



Qual è il compito di un dirigente sindacale? Tutelare gli interessi dei lavoratori attraverso l’esercizio dei diritti che in un regime democratico sono riconosciuti ai sindacati e ai lavoratori. Il sindacato, pertanto, ha un ruolo di protagonista e di corresponsabile della condizione economica e sociale del mondo del lavoro. Certo, anche il sindacato cammina e agisce sul tapis roulant di processi nazionali e internazionali che ne condizionano l’iniziativa, soprattutto nel contesto di un’economia globalizzata e competitiva. Ma la sua è una funzione importante: non a caso il primo obiettivo che si pone un regime autoritario è quella di ridimensionare il potere dei sindacati liberi per indebolire o addirittura cancellarne l’autonomia rivendicativa nell’interesse dei lavoratori.



A parte i regimi totalitari e dittatoriali, di solito sono i Governi di destra o conservatori che tentano di limitare le libertà sindacali: ma in realtà in una società democratica nessun Governo si azzarderebbe a condurre contro i sindacati una lotta sul terreno formale della legislazione del lavoro. Anche i tentativi dichiarati (e non da un Governo di destra) di disintermediazione dei corpi sociali non sono ma tracimati nella messa in discussione di un tesoretto di norme accumulate nel tempo e custodite dalla giurisprudenza a presidio della libertà sindacale. Come ha detto recentemente – con riferimento ai Parlamenti – Luciano Violante, in un Paese democratico un sindacato può soltanto suicidarsi.

È quanto sta avvenendo in Italia. La Cgil di Maurizio Landini insiste nel rappresentare l’Italia come un Paese in via di sviluppo, dove i lavoratori sono privati di diritti fondamentali e devono sopportare condizioni di lavoro degradate, insicure per quanto riguarda la salute e l’integrità fisica di chi lavora e caratterizzate da una crescente condizione di precarietà e di povertà. È chiaro che esistono tanti problemi gravi e complessi che tuttavia non possono essere affrontati e risolti con la denuncia e il ricorso a scioperi generali e manifestazioni ormai tanto rituali e generici da lasciare le cose come stavano. Ma la condizione del mondo del lavoro in Italia non è una notte in cui tutte le vacche sono nere. L’Italia non sarebbe la seconda potenza manifatturiera in Europa se i lavoratori fossero trattati come afferma la peggiore propaganda della sinistra politica e sindacale.

Negli ultimi mesi, Landini e i suoi non se la sono più sentita di negare una crescita importante dell’occupazione e si avvalgono dell’assist fornito dall’Ocse denunciando una condizione di bassi salari (qualcuno si spinge fino a parlare di salari da fame), dimenticando che il 97% dei lavoratori dipendenti è coperto da un contratto collettivo di lavoro sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil, mentre la piaga dei c.d. contratti pirata alla prova dei fatti si è rivelata una modesta ferita in un corpo sociale ancora solido (lo 0,3% dei lavoratori del settore privato), grazie soprattutto ai gruppi dirigenti delle federazioni di categoria che mantengono ancora rapporti di unità d’azione e stipulano i contratti. La sentenza dell’Ocse è stata accolta dallasinistra politica e sindacale come una àncora di salvezza per giustificare la rappresentazione “politicamente corretta” dello sfascio del Paese, che aumenta l’occupazione, ma con lavori precari, non qualificati e sottopagati. Il fatto che sia in atto un trend di assunzioni a tempo indeterminato e una flessione di quelli a termine viene stoppato dai bassi salari.

Gli stipendi degli italiani – ha scritto l’Ocse – sono fermi. Negli ultimi 30 anni, dal 1991 al 2022, sono cresciuti solo dell’1%, a fronte del 32,5% in media nell’area Ocse”. Come reagiscono Schlein e Landini a questo giudizio così severo? Come una tribù che dà corso a una danza della pioggia, a una protesta contro il Governo che viene ritenuto responsabile di questa stagnazione come se in due anni avesse ereditato tutte le scelte sbagliate dei Governi succedutisi nell’arco di un trentennio.

Un sindacato serio si interrogherebbe sulle cause di questa dèbacle. L’Ocse indica uno dei motivi più importanti: il fallimento della contrattazione collettiva che è legato alla bassa produttività, cresciuta però più delle retribuzioni nel periodo. Il risultato è la continua caduta della quota dei salari sul Pil, a fronte della crescita del peso dei profitti (40% contro 60% rispettivamente). In sostanza una struttura contrattuale fondata sulla contrattazione nazionale di categoria e che stenta a dare priorità alla contrattazione decentrata e di prossimità, nonostante le agevolazioni fiscali di cui gode, comporta una negoziazione delle retribuzioni a scadenze molto distanti tra di loro, sia per quanto riguarda la decorrenza e la durate dei contratti, sia il tempo impiegato nei negoziati per il loro rinnovo. È evidente che un’imprevista impennata inflativa – come si è verificata – ha penalizzato ancora di più una dinamica retributiva definita anni prima. Anche la relazione della Banca d’Italia ha sottolineato questo aspetto: “Lo scorso anno la crescita del costo orario del lavoro nel settore privato non agricolo si è intensificata (2,4 per cento, dall’1,1 del 2022; pur mantenendosi su un livello nettamente inferiore a quello medio osservato nell’area dell’euro (5,6 per cento). La dinamica ha riflesso l’accelerazione delle retribuzioni minime stabilite dalla contrattazione collettiva (2,2 per cento, da 1,0), che hanno risposto con ritardo alla variazione dei prezzi al consumo a causa della durata pluriennale degli accordi tra le parti sociali e della lunghezza dei processi di negoziazione dei rinnovi contrattuali. L’aumento dei minimi retributivi è stato più marcato nell’industria (3,3 per cento, da 1,5): vi ha inciso anche la clausola di salvaguardia del contratto del settore metalmeccanico, che interessa oltre 2,2 milioni di dipendenti e prevede il recupero annuale automatico, posticipato, degli scostamenti tra la dinamica retributiva e l’andamento realizzato dell’IPCA al netto dei beni energetici importati. Nei servizi privati la crescita delle retribuzioni contrattuali è stata più moderata (1,3 per cento, da 0,5) anche a causa dei ritardi nei rinnovi: nonostante gli accordi siglati nel corso dell’anno, la quota di dipendenti con un contratto collettivo scaduto è rimasta particolarmente elevata (73,1 per cento in media d’anno)”.

Eppure sul versante di rinnovi le organizzazioni sindacali sarebbero autorizzate a mettere in evidenza un’importante capacità di iniziativa che ha invertito una tendenza anche sul versante dei salari. All’inizio del 2024 era venuto a scadenza il 56% dei contratti che interessavano quasi 8 milioni di lavoratori. A fine marzo i contratti scaduti in attesa di rinnovo erano 36 per 4,6 milioni di lavoratori, pari al 35% del totale; quota che scende al 16% considerando solo il settore privato. In un articolo su Il Foglio, Nunzia Penelope passa in rassegna, con tanto di dati, a quella che definisce una brillante inaugurazione della stagione contrattuale con aumenti quasi mai al di sotto di 200 euro mensili. I margini di profitto delle aziende – scrive Penelope – lo consentono, mentre la forza lavoro sta diventando una merce davvero rara; ed è quindi sulla disperata ricerca di personale che si scaricano le tensioni. Ma per la Cgil questi problemi non esistono.

Si sta profilando – sia pure con molte differenze di settore e territori – una crisi del lavoro sul lato dell’offerta. È questa una condizione di vantaggio per il sindacato. E le categorie se ne sono accorte. Fanno tutto quello che possono per migliorare le condizioni dei lavoratori attraverso la contrattazione, lasciando a Landini lo sfizio di giocare con i referendum sulla Via Maestra.

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