I dati Istat sul mercato del lavoro del mese di ottobre confermano ancora la crescita degli indicatori positivi. Aumentano gli occupati, cresce il tasso di occupazione, aumentano anche i disoccupati perché diminuiscono le persone inattive. Crescono i contratti a tempo indeterminato e sono al minimo quelli a termine. I dati dell’ultimo mese contribuiscono così a confermare un trend di crescita di tutti gli indicatori dell’occupazione che è iniziato con la conclusione dei periodi di chiusura dovuti alla pandemia. Il dato annuale ci porta a una situazione che risulta migliore anche dei massimi pre-pandemici.
Gli effetti dell’andamento demografico incominciano a disegnare una composizione per età della forza lavoro diversa da quella tradizionale. Aumenta il peso delle classi estreme di giovani e anziani e cala la “pancia” delle età mediane. Aumenta perciò anche il tasso di occupazione di giovani e donne, pur restando ancora inferiore agli obiettivi che l’Europa si è data.
Il dato positivo dell’occupazione è in controtendenza con l’andamento dell’economia che risulta in calo negli ultimi mesi. La tenuta della nostra produzione è migliore di quella della Germania, ma è comunque minore di quella di 12 mesi fa.
In una situazione che apparentemente è favorevole all’occupazione raccogliamo insoddisfazione sia dal lato dei lavoratori che delle imprese. È come se i comportamenti registrati sul mercato del lavoro fossero indotti da scelte difensive e non di sviluppo.
Il fenomeno delle grandi dimissioni, come evidenziato già da molte ricerche, rappresenta la ricerca di condizioni migliori di lavoro da parte di quella quota di lavoratori che, forte di competenze scarse e ricercati dalle imprese, si mettono in moto cercando di trovare le condizioni di lavoro desiderate. Le imprese per ragioni speculari trattengono con contratti permanenti quella quota di lavoratori che sanno essere difficilmente sostituibili perché portatori di competenze sempre più scarse.
Questi comportamenti “difensivi” riguardano però fasce alte di imprese e di lavoratori e non influiscono sui problemi principali che rendono ancora fragile il nostro mercato del lavoro.
Il mismatching denunciato dalle imprese fra competenze necessarie e formazione lavorativa dei giovani che arrivano sul mercato del lavoro si amplia costantemente. Ormai più del 50% dei posti di lavoro rischia di non trovare copertura per assenza di persone con preparazione adeguata.
Il risultato della crescita occupazionale si concentra in settori dei servizi ad alta intensità di manodopera. Sono quelli dove vi è un forte ritardo negli investimenti in modernizzazione tecnologica, a bassa produttività e bassi salari. A ciò si somma il ricorso al part-time involontario che contribuisce a fare emergere una quota di lavoro povero superiore a quanto avviene in Paesi con la nostra struttura economica.
In questo quadro l’occasione offerta dagli investimenti finanziati dal Pnrr può diventare determinante per intervenire sui nodi di debolezza del sistema. In primo luogo, si deve intervenire per potenziare i servizi di politiche attive. Due sono le linee indicate nel piano di crescita europeo. La politica attiva per chi cerca lavoro, programma Gol, e forti investimenti sulla formazione sia dei giovani in formazione lavoro che per gli occupati. Per entrambi i progetti sono stati fissati, con logica da burocrazia pianificatoria sovietica più che con attenzione al risultato, obiettivi quantitativi che appaiono già irrealistici. Non perché troppo ambiziosi, ma perché hanno alla base numeri talmente sbagliati per cui i target indicati o non esistono o sono comunque più rari di quanto richiesto. In compenso la rigidità burocratica mette a disposizione un panel di servizi difficilmente adattabili ai bisogni concreti delle persone e delle imprese. Sia per le politiche attive da correggere che per potenziare l’efficacia dei processi di reskilling e upskilling da realizzare servono sistemi informativi di coordinamento più efficienti, ma soprattutto va capito che si parte dalle esigenze delle persone e delle imprese e non da un’astratta e burocratica definizione dei servizi. Sarebbe come porre in sanità delle formule ad personam prima delle visite con cui definire la malattia e quindi la cura.
Il sistema delle imprese ha bisogno che venga sviluppata una politica di sostegno per gli investimenti che accelerano la transizione digitale e della sostenibilità ambientale e sociale coinvolgendo le aziende di ogni dimensione e la Pubblica amministrazione. Passa di qui la crescita della produttività di tutto il sistema e non solo di quelle stimolate dall’essere inserite nella competizione internazionale. Deve trovare ampio sostegno economico ogni investimento in ricerca e sviluppo. È possibile con i fondi europei dare vita a hub territoriali di ricerca e sviluppo che siano funzionali alle filiere produttive delle micro e piccole imprese che caratterizzano il nostro sistema produttivo.
La questione del lavoro povero e dell’indispensabile crescita salariale passa essenzialmente da questa capacità di crescita di sistema e di una distribuzione dei redditi che valorizzi l’apporto del lavoro. Anche la diatriba sul salario minimo troverebbe una composizione diversa. Sia la proposta dell’opposizione con la richiesta di fissare per legge il valore minimo orario che la delega per fissare un equo salario sulla base della rappresentatività dei contratti rischiano di offuscare la contrattazione fra le parti.
Chiarito a tutti, e purtroppo serve ancora ribadirlo, che il salario non può essere trattato come una variabile indipendente, se abbiamo a cuore la difesa delle libertà sindacali riteniamo necessario che vi sia uno scatto in avanti di tutte le parti delle rappresentanze sociali. Potrebbero ripartire dall’accordo siglato anche con le rappresentanze delle imprese per costituire una commissione dove siano loro stessi a definire, sulla base della contrattazione, i minimi di riferimento e la rappresentatività dei diversi contratti. Intanto si intervenga, però, subito su salari e part-time obbligati che sanno di disprezzo per chi lavora e diventano intollerabili in una fase di crescita dei prezzi dei beni di prima necessità.
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