Anche l’infarto occorso al lavoratore durante un viaggio di lavoro può rientrare nella nozione di infortunio in itinere. Lo ha stabilito la Cassazione con sentenza n. 5814 del 22 febbraio 2022, accogliendo il ricorso proposto dagli eredi di un lavoratore deceduto per infarto avvenuto a causa di una situazione di forte stress lavorativo durante un viaggio di lavoro in Cina. A causa del maltempo, il volo era stato cancellato e il lavoratore era stato costretto a una lunga attesa in aeroporto, a un pernottamento di fortuna in un albergo e a un successivo viaggio in treno di oltre 700 km sino a Pechino, dove aveva dovuto partecipare immediatamente a un’importante riunione, con un periodo di veglia di quasi 24 ore consecutive. L’indomani il lavoratore era stato trovato privo di vita nella sua camera d’albergo. 



La Corte territoriale aveva respinto l’appello proposto dagli eredi, che agivano per ottenere la rendita ai superstiti, ritenendo che l’evento denunciato non fosse collegato alla prestazione lavorativa in sé, ma derivasse dall’esposizione a un rischio generico (la cancellazione del volo per maltempo e quanto poi ne era conseguito) cui possono essere esposti in modo indifferenziato tutti coloro che viaggiano in aereo. Per questo motivo, l’infarto non poteva dirsi in rapporto di derivazione eziologica con l’attività di lavoro.



Nel cassare la sentenza, la Suprema Corte ha ricordato anzitutto che, con la disciplina dettata dall’art. 12 del d.lgs. n. 38 del 2000, la tutela assicurativa dell’Inail è stata estesa anche all’infortunio che colpisce il lavoratore durante il percorso che collega l’abitazione al lavoro e viceversa (cd. Infortunio in itinere). La Suprema Corte ha quindi chiarito che l’anzidetta disposizione amplia la tutela assicurativa, estendendola a qualsiasi infortunio avvenuto lungo il percorso da casa al luogo di lavoro indipendentemente dall’entità del rischio o dalla tipologia della specifica attività lavorativa dell’infortunato. Restano esclusi solo quegli infortuni causati da una “scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella tipica legata al c.d. percorso normale” (c.d. rischio elettivo), così da realizzare una condotta interruttiva di ogni nesso tra lavoro-rischio ed evento. Secondo la Suprema Corte, la sussistenza di un rapporto finalistico tra il c.d. “percorso normale” e l’attività lavorativa è sufficiente a garantire la tutela antinfortunistica.



Quel che rileva per la legge è che l’infortunio sia occorso durante il “normale percorso” di andata e ritorno casa-lavoro o durante il normale tragitto che il lavoratore deve percorrere per recarsi da un luogo di lavoro a un altro, nel caso di rapporti con più datori di lavoro; o durante il normale tragitto che il lavoratore deve percorrere per raggiungere il luogo di consumazione abituale dei pasti, se non esiste una mensa aziendale.

Non rientrano invece nella copertura assicurativa le interruzioni e le deviazioni dal “normale percorso”, a meno che non ricorrano specifiche condizioni di necessità. Rientrano tra le interruzioni e le deviazioni “necessitate” quelle effettuate in seguito a una direttiva del datore di lavoro; quelle dovute a causa di forza maggiore (ad esempio, un guasto meccanico); quelle dovute a esigenze essenziali e improrogabili (ad esempio, il soddisfacimento di esigenze fisiologiche); quelle effettuate per adempiere a obblighi penalmente rilevanti (ad esempio, per prestare soccorso a vittime di incidente stradale); quelle effettuate per esigenze costituzionalmente rilevanti (ad esempio, per accompagnare i figli a scuola); le brevi soste che non alterano le condizioni di rischio. Come ha chiarito Cass. n. 22180 del 3.8.2021, non può invece considerarsi “necessitata” la deviazione del percorso determinata dalla decisione del lavoratore di andare a prendere e riaccompagnare a casa un collega di lavoro che, a causa di un guasto alla propria autovettura, non avrebbe potuto recarsi al lavoro in mancanza di mezzi pubblici. 

Sempre con riferimento alla nozione di “deviazioni non necessitate”, la Corte d’Appello di Bari, con sentenza n. 2319 del 2016, ha negato la risarcibilità dell’infortunio occorso al dipendente mentre si recava al lavoro in auto. In quel caso era emerso, infatti, che il percorso seguito dal lavoratore non era il più breve (il lavoratore avrebbe potuto percorrere un’altra strada che avrebbe comportato un risparmio di tempo pari a 12 minuti e di distanza tra l’abitazione e la sede lavorativa di 11 chilometri) ed era emerso altresì che il lavoratore aveva effettuato irragionevolmente una deviazione che non era dipesa da una causa di forza maggiore, da esigenze improrogabili o dall’attuazione di una direttiva del datore di lavoro. È stata quindi ritenuta sussistente un’ipotesi di rischio elettivo, causato dal lavoratore per scelte personali tali da interrompere il nesso di causalità tra il lavoro e l’evento subito.

Anche il tipo di mezzo utilizzato per recarsi al lavoro può costituire una scriminante ai fini del riconoscimento dell’infortunio in itinere. La legge stabilisce infatti che “l’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato, purché necessitato”. Al riguardo, l’Inail ha più volte chiarito che l’uso del mezzo privato (automobile, scooter o altro mezzo di trasporto) può considerarsi necessitato solo qualora sia verificata la presenza di almeno una delle seguenti condizioni: il mezzo è fornito o prescritto dal datore di lavoro per esigenze lavorative; il luogo di lavoro è irraggiungibile con i mezzi pubblici oppure è raggiungibile ma non in tempo utile rispetto al turno di lavoro; i mezzi pubblici obbligano ad attese eccessivamente lunghe (tali sono considerate quelle superiori complessivamente a un’ora); i mezzi pubblici comportano un rilevante dispendio di tempo rispetto all’utilizzo del mezzo privato (per analogia, sono considerati “rilevanti” i risparmi di tempo consentiti dall’uso del mezzo privato rispetto all’utilizzo del mezzo pubblico se superiori complessivamente a un’ora); la distanza della più vicina fermata del mezzo pubblico, dal luogo di abitazione o dal luogo di lavoro, deve essere percorsa a piedi ed è eccessivamente lunga (secondo l’Istituto può considerarsi “irragionevole” e dunque tale da giustificare l’uso del mezzo privato di trasporto, una distanza superiore a un km).

In caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato, restano comunque esclusi gli infortuni direttamente cagionati dall’abuso di alcolici e di psicofarmaci o dall’uso non terapeutico di stupefacenti e allucinogeni; l’assicurazione, inoltre, non opera nei confronti del conducente sprovvisto della prescritta abilitazione di guida.

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