Nella realtà post-pandemica si è affermato sempre più in Italia, così come oltreoceano, il fenomeno delle c.d. great resignations ovvero dell’elevato numero di dimissioni che nel corso del 2021, secondo i dati più recenti del ministero del Lavoro, hanno raggiunto, nel solo periodo ricompreso tra aprile e novembre, la soglia record del 23,2% rispetto agli occupati. Tale scenario (che non ha precedenti) pare scaturisca dalla crescente esigenza dei lavoratori di ottenere un miglior equilibrio tra vita e lavoro: di qui le cessazioni dei rapporti di lavoro non più ritenuti soddisfacenti.
Senonché, in stretta correlazione con l’aumento significativo delle dimissioni “genuinamente” manifestate da parte dei lavoratori, si è registrato anche un altro fenomeno: la crescita dei casi di assenza ingiustificata dal posto di lavoro. In pratica, invece di rassegnare le dimissioni, alcuni “furbetti” preferiscono assentarsi di punto in bianco e senza giustificazioni dal posto di lavoro. Così facendo, vogliono spingere il datore di lavoro a licenziarli, in modo da poter così fruire della NaSpi, che viene erogata solo nel caso in cui la cessazione del rapporto di lavoro sia avvenuta per eventi “indipendenti dalla volontà del lavoratore” (il che non ricorre ovviamente in caso di dimissioni).
A questo punto il lettore potrebbe obiettare: “ma il datore di lavoro, invece che licenziare, non potrebbe più semplicemente prendere atto della volontà dimissionaria del lavoratore?”. Purtroppo, le cose non sono così semplici. L’articolo 26 del D.lgs. n. 151/2015 prevede espressamente che la volontà di dimettersi debba essere manifestata unicamente tramite un’apposita procedura telematica che il lavoratore deve eseguire on-line, “a pena di inefficacia”. In mancanza di tale adempimento, le dimissioni sono nulle.
La scelta di alcuni lavoratori di non dimettersi (pur avendo la ferma volontà di cessare il rapporto di lavoro) e di attendere il licenziamento non è comunque esente da “rischi”. Ad esempio, il Tribunale di Udine (con sentenza n. 160/2021) ha stigmatizzato questa condotta, rilevando che il comportamento del lavoratore era volto a ottenere illegittimamente la NaSpi, il che costituiva un chiaro abuso del diritto. Sulla scorta di ciò, il Tribunale ha quindi posto a carico del lavoratore il costo del ticket del licenziamento (euro 557,92 per ogni anno di servizio del lavoratore cessato, fino a un massimo di euro 1.673,76). Ma non è finita. Lo stesso Tribunale di Udine è nuovamente e recentemente tornato a occuparsi di questa fattispecie e questa volta è giunto a un conclusione particolarmente significativa. In particolare, con la sentenza n. 20 del 27.5.2022, il Tribunale di Udine ha ritenuto non necessario il rispetto della formalità richiesta dal richiamato articolo 26 qualora dalle circostanze del caso specifico possa desumersi la volontà del lavoratore di dimettersi.
Più precisamente, nella citata sentenza, la lavoratrice chiedeva al Tribunale l’annullamento delle dimissioni che il datore di lavoro aveva comunicato all’Inps nonché il pagamento delle retribuzioni maturate per tutto il periodo di assenza ingiustificata. Sennonché, come emerso nel corso dell’istruttoria, la lavoratrice si era volontariamente assentata dal lavoro senza mai fornire una giustificazione, aveva ripetutamente e in più contesti manifestato la volontà di cessare il rapporto di lavoro, e si era rifiutata di riscontrare l’invito a dimettersi rivoltole dal datore di lavoro. In ragione di ciò, osserva il Tribunale, la Società aveva legittimamente ritenuto che il rapporto di lavoro dovesse considerarsi risolto in via di fatto, per volontà della lavoratrice. In particolare, la sentenza ha ritenuto che “pur in difetto di una corretta formalizzazione delle dimissioni, è agevole ravvisare nel comportamento concretamente tenuto dalle parti, l’una nei confronti dell’altra, la sintomatica manifestazione di una reciproca e convergente volontà – pur se sorretta da motivi diversi – di non dare più seguito al contratto di lavoro (…) determinandone così la risoluzione per fatti concludenti (…) nel caso de quo, tuttavia, vi sono diversi elementi fattuali che dimostrano l’univoca sussistenza della volontà dimissiva in capo alla lavoratrice“.
Il Tribunale è quindi giunto alla conclusione che, “qualora nel comportamento delle parti si possa ravvisare la reciproca volontà di non dare più seguito al rapporto di lavoro, tale assenza ingiustificata è equiparata alle dimissioni“. Tale conclusione, ad avviso del Tribunale di Udine, è legittimamente sostenibile sia sulla scorta della legge delega da cui è scaturito D.lgs. n. 151/2015, sia perché è rimasta intatta la facoltà di libero recesso prevista dall’art. 2118 c.c.; ne consegue che “le dimissioni possono continuare a configurarsi come valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetti di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica imposta con la novella del 2015“.
Vita dura per i furbetti delle dimissioni.
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