Le ultime indagini non lasciano dubbi. C’è un profondo cambiamento nel mondo del lavoro come ha dimostrato pochi giorni fa l’ultimo rapporto sull’Italia di Kelly, una delle maggiori società internazionali di cacciatori di teste, da cui è emerso che un lavoratore su tre spera di poter lasciare il proprio posto di lavoro entro un anno perché insoddisfatto delle condizioni in cui si trova. Ancora più allarmante un sondaggio della società di consulenza Gallup da cui emerge che solo il 5% dei lavoratori si sente coinvolto nelle sue attività aziendali e per questo l’Italia è agli ultimi posti nella classifica dei Paesi in cui cercare lavoro.



Le ragioni non sono solo economiche. C’è indubbiamente una questione salariale che riguarda tutte le fasce di lavoratori. Non per nulla la possibilità di introdurre un salario minimo obbligatorio per legge ha costituito uno dei temi “caldi” a livello politico negli ultimi giorni prima delle vacanze degli impegni parlamentari.



Ma c’è anche l’insoddisfazione per la posizione all’interno dell’impresa, per la delusione di non veder valorizzate le proprie competenze, per la mancanza di una seria partecipazione alle scelte o alle politiche aziendali.

Proprio per queste ragioni le indagini sul mondo del lavoro mettono in luce come sia crescendo il fenomeno del “quiet quitting” chiamato anche “dimissioni silenziose”: limitarsi a fare le cose strettamente necessarie per rispettare il contratto di lavoro senza alcun impegno aggiuntivo e senza alcuno spirito di iniziativa.

I problemi che spingono alle dimissioni o al disimpegno non sono né semplici, né facili da affrontare: per un’azienda vuol dire cercare di offrire maggiore flessibilità per conciliare famiglia e lavoro, migliorare gli ambienti di lavoro, favorire il confronto e il dialogo tra i dipendenti, attuare misure di welfare che migliorino la qualità della vita, creare percorsi di carriera che possano suscitare interesse e partecipazione.



In questa prospettiva la dimensione in cui l’impresa si trova a operare non può che essere quella della sostenibilità, una parola di gran moda che viene spesso, e giustamente, usata per indicare l’esigenza di politiche di salvaguardia ambientale, ma che può e deve diventare anche un filo d’Arianna per affrontare le strategie di gestione aziendale. Lo dimostra il libro curato da Paolo Iacci e Luca Solari: “Sostenibilità e risorse umane” (Ed. Franco Angeli, pagg. 184, € 25), un libro in cui si intrecciano le analisi sullo scenario economico e sociale con le tendenze di fondo del ruolo delle politiche del personale, politiche che vengono ora chiamate “delle risorse umane” o più semplicemente HR.

La sostenibilità nel mondo del lavoro è così vista sotto i suoi diversi aspetti: da quello strettamente legale a quello più soggettivo di carattere etico. Ci sono normative da rispettare, come quelle relative al bilancio di sostenibilità, ma c’è anche una sempre maggiore spinta a far sì che gli obiettivi Esg (Environmental, social, governance) non restino valori astratti. Con un duplice risultato: far arrivare veramente la persona al centro dell’impresa e rendere questa stessa impresa più dinamica, efficiente e competitiva.

Il libro di Iacci e Solari offre così le istruzioni operative per guardare e vivere con una prospettiva costruttiva il mondo del lavoro.

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