C’è una questione, in questi giorni, che in realtà ne somma due: la crisi del personale (con la great resignation, ovvero il fenomeno delle dimissioni dal posto di lavoro), e il salario minimo, quello di cui si discute in Europa.
Il salario minimo
Sulla seconda si sprecano illusioni ed equivoci, quasi la retribuzione base potesse equivalere a un generico aumento dei salari. Ovvio che non sia così, ed è altrettanto scontato che il salario minimo europeo serva soprattutto a quei Paesi che non basano le retribuzioni sui contratti di lavoro collettivi, di categoria, che di fatto sono già un salario minimo, sul quale poi vanno innervate le contrattazioni di secondo livello, quelle territoriali, di distretto, quelle aziendali. Ci si sta accorgendo adesso che nonostante tutto si è ancora distanti dall’equilibrio di salario, quello in grado di eguagliare la domanda e l’offerta di lavoro (con disoccupazione a zero). Le imprese non pagano (acquistano) il lavoro, ma il tempo prestato dai lavoratori, e su questo si basano i contratti, ma non solo: anche il prezzo finale della produzione. I sindacati lamentano da anni scarsi investimenti nel prodotto e troppi nei processi, che significa ottimizzare i tempi del lavoro (quello che genera i costi) a parità di risultato, con evidenti scarti di markup. Un lavoro a basso costo implica insomma anche formazione deficitaria degli addetti, skill approssimative, scarsa innovazione tecnologica, ricorso all’outsourcing.
La great resignation
Un esempio: in Veneto, nei primi quattro mesi dell’anno, si sono registrate 500 dimissioni al giorno. Secondo VenetoLavoro “sono in aumento le cessazioni, che ammontano a 42.500 ad aprile (+54%) e a 171.600 nel quadrimestre (+43%): quasi la metà avviene per fine termine di contratti a tempo determinato e un altro 40% circa per dimissioni, la cui crescita nel recente periodo è un fenomeno ormai acclarato”. Secondo l’associazione dei direttori del personale, i principali motivi vanno dalla ricerca di condizioni economiche migliori al clima di lavoro insopportabile, alle opportunità di carriera, via via fino alla ricerca di nuove “modalità di vita”. Il risultato è che solo nel mondo del turismo mancano circa 380 mila addetti, con concreti rischi per l’erogazione dei servizi e le aperture stagionali, e con frettolosi rimedi escogitati dagli operatori, come ad esempio la trasformazione di hotel in residence o l’automazione dell’ospitalità, con esternalizzazione dei servizi relativi. O anche il reclutamento di personale last-minute totalmente privo di qualsiasi esperienza o formazione, scelto a caso e in fretta, troppo in fretta, tra i (pochi) cv che pervengono. Gian Paolo Valcavi, esperto del mercato del lavoro, la chiama la “tinderizzazione del curriculum”, intendendo la media di pochi istanti dedicati alla valutazione del curriculum.
La formazione
È chiaro che tra i principali motivi della disaffezione del personale (oltre alla disincentivazione data dal Reddito di cittadinanza, la concorrenza di mestieri che a parità di retribuzione garantiscono turnazioni più soft, l’abitudine a volte ancora diffusa al “nero”) c’è il salario, giudicato insufficiente (ma sempre ben oltre a quello minimo di cui sopra) a compensare l’impegno spesso frazionato, quasi sempre lungo anche nei fine settimana, che l’industria del turismo (segmento horeca compreso) richiede. La necessità di coprire i periodi di maggiore affluenza è peggiorata anno dopo anno, sempre aggravata da un incredibile cuneo fiscale e anche dalla scomparsa dei voucher che avevano aiutato un lavoro agile anche se temporaneo. Così com’è rimasto intatto il problema della preparazione, la fornitura di una tool box a chi deve affrontare mansioni delicate quali sono i rapporti con gli ospiti, come si dice “il primo biglietto da visita della struttura”.
Su questo, si sono espressi vari player. “Noi non vendiamo oggetti, noi forniamo servizi ed esperienze. Quindi a noi non servono commessi o addetti, ma collaboratori con particolari competenze e attitudini. Da noi sono anche loro, e non solo i nostri ospiti, i protagonisti”, sostiene ad esempio Lorenzo Bighin, direttore centrale risorse umane e operations di TH Resorts, nella recente ricerca “Formazione e relazioni. Un nuovo modello per il turismo”, voluta dalla SIO (Scuola italiana di ospitalità) e Cdp. “Le aziende oggi devono essere attrattive, non possono limitarsi ad offrire un posto fisso che non risponde più alle dinamiche attuali del mondo del lavoro. Come vale il detto che il viaggio, e non la meta finale, è già creazione di esperienza, la costruzione e l’implementazione delle competenze del personale sono già creazione di successo per l’azienda e passaggio fondamentale per la sua crescita”.
Altre posizioni sono state raccolte anche dal quotidiano online di settore “Italia a tavola”. “Per far tornare a brillare il nostro settore bisogna trovare un nuovo metodo di comunicazione per parlare con i giovani, formarli adeguatamente e trovare soluzione concrete per garantire loto un benessere di vita personale e professionale”, dice Gabriele Bianchi, eletto miglior cameriere d’Italia under 30 e notissimo influencer. “I ragazzi vanno valorizzati e stimolati. Quando sono a scuola hanno bisogno di fare più lezioni pratiche, stando molto più tempo fuori dalle aule. Gli alunni devono poter stare a fianco dei professionisti per anche imparare i segreti del mestiere”, sostiene Valerio Beltrami, presidente di Amira Italia, l’associazione che raggruppa i maître di ristoranti e alberghi. “Non è possibile chiedere qualunque cosa a qualsiasi condizione, così si finisce per far perdere motivazione e passione. Il lavoratore, magari giovane, si sente sfruttato e considerato come un mulo e non come un professionista. Poi a fine mese vede la retribuzione e si chiede: chi me lo fa fare?”, aggiunge Alessandro D’Andrea, presidente di Ada l’associazione dei direttori d’albergo.
“Per invertire la rotta lo Stato deve anzitutto introdurre delle politiche attive. Non bastano gli ammortizzatori sociali, ma investimenti nella riqualificazione delle professioni e che garantiscano anche a chi non ha un impiego di poter rientrare nel mondo del lavoro”, conclude Lino Stoppani, presidente nazionale di Fipe. “Anche all’estero e in particolare in Spagna e in Grecia si assiste alla fuga di stagionali da tutte le tipologie di impiego. Nelle strutture mancano cuochi, camerieri, personale di sala e anche gli animatori. Abbiamo quindi deciso di puntare sui nostri ragazzi, organizzando corsi di formazione al fine di far crescere personale qualificato”, dice Daniele Pompili, general manager divisione Villaggi di Veraclub.
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