Chi ha paura della flessibilità? Molti, moltissimi, se guardiamo al dibattito, spesso assai aspro, fra le forze politiche e sociali sulla cosiddetta legge Biagi. In questa discussione si continua a confondere e sovrapporre due concetti che in realtà sono molto lontani fra di loro: flessibilità e precarietà.

La precarietà è una condizione odiosa, contro la quale bisogna combattere con tutti gli strumenti di legge e di controllo. La flessibilità è un’esigenza delle imprese, che rappresenta qualche cosa in più che l’impresa richiede oltre il normale rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Queste differenze erano state colte molto bene da Marco Biagi, la cui figura dovrebbe essere finalmente rivalutata anche dalla sinistra, per il contributo che ha dato all’innovazione del mercato del lavoro. Biagi infatti è stato un riformista moderno, pragmatico, aperto al dialogo e a una considerazione non tattica delle compatibilità e delle opportunità, attento a cosa succede negli altri Paesi per proporre in Italia soluzioni nuove e positive.

La legge che porta il suo nome viene accusata di aver aggravato le distorsioni e le ingiustizie presenti nel mercato del lavoro. È un’accusa totalmente ingiusta, basata più sul “sentito dire” che sulla reale conoscenza dei suoi contenuti. La legge Biagi si è mossa in sostanziale continuità con la legge Treu del 1997. Ha trasformato i contratti di “Co.co.co.” in “Co.co.pro.”, circoscrivendone l’ambito ad un preciso programma di lavoro, mettendo fine alla genericità di una collaborazione continuativa destinata a protrarsi sine die. Ha creato le Agenzie per il lavoro, estendendo il loro ambito di attività oltre la semplice intermediazione interinale, costituendo così un soggetto nuovo capace di far incontrare domanda e offerta di lavoro, e contribuendo a sviluppare i servizi nel settore delle risorse umane. In questo modo le Agenzie per il lavoro hanno potuto impegnarsi in settori come le politiche attive del lavoro, con un ruolo importante nella ricollocazione dei lavoratori. Anche alcuni istituti, fra i più criticati e fra i meno usati previsti dalla legge 30, come lo staff leasing, si rivelano strumenti utili per contrastare la falsa somministrazione di lavoro da parte di cooperative spurie, che spesso prestano lavoro in forma illegale, dando luogo a veri e propri esempi di caporalato.

Molte e di diversa natura sono infatti le ingiustizie presenti nel mercato del lavoro contro le quali combattere. Penso alla vera e propria riduzione in schiavitù di immigrati introdotti in Italia illegalmente, al fenomeno del caporalato, che si è riprodotto negli ultimi anni in ogni parte del Paese. Penso al lavoro nero o a quello “grigio”, accompagnati dal mancato riconoscimento dei più elementari diritti dei lavoratori.

Tutti i dati dimostrano che l’occupazione è in crescita, che la lotta al lavoro nero e all’evasione fiscale, che ne è complice, comincia a produrre risultati, che la produzione registra una crescita continua dopo anni di immobilismo. Nonostante i segnali preoccupanti che derivano dalle recenti vicende dell’economia americana, è ancora possibile delineare un percorso di crescita che sappia sostenere e conciliare sicurezze per giovani e meno giovani, occupati e disoccupati. Occorre prevedere incentivi alla natalità, politiche più incisive per la sicurezza sul lavoro e la sicurezza sociale, strumenti per il governo equo ed efficiente dei flussi migratori.

Tendenze, contesto e strumenti convergono quindi nel proporre opportunità. Ciò che serve è che queste opportunità siano centrate sui valori di qualità e solidarietà. Il Protocollo del governo in materia di welfare ha offerto alle parti sociali un’importante occasione per disegnare una parte di rilievo del nostro futuro. È stato raggiunto, anche grazie all’impegno e alla tenacia del ministro Damiano, un accordo condiviso largamente e che fa fare un reale passo in avanti.
L’attesa più rilevante si concentra ora su come saranno tradotte in norme le linee di riforma degli ammortizzatori sociali. È questa la vera nuova frontiera delle politiche per il lavoro. È su questi strumenti che l’Italia marca un ritardo formidabile rispetto agli altri Paesi europei, nei quali da tem-po sono stati superati istituti del welfare di epoca fordista e di marca assistenziale, per dare vita al cosiddetto workfare e ad istituti che promuovono il lavoro.


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