Si avvicina la data del referendum tra i lavoratori sull’accordo tra governo e sindacati e il dibattito sul welfare non accenna a placarsi. Della legge Biagi si sta dicendo, dal 2003 a questa parte, tutto e il suo contrario. Ne abbiamo parlato con il professor Ichino, docente di Diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Milano.

Quali sono stati gli effetti della legge Biagi sul mercato del lavoro italiano?

È molto difficile valutare seriamente il suo effetto sull’aumento del tasso di occupazione e la riduzione del tasso di disoccupazione, che pure si sono registrati negli ultimi anni, poiché su di essi possono avere influito anche altre circostanze congiunturali: essi possono dunque essere spiegati anche diversamente. Una cosa, però, mi sembra che possa essere esclusa con sicurezza: cioè che questa legge abbia in qualche modo favorito la diffusione del lavoro precario.

Perché lo si può escludere?

La quota di lavoro precario rispetto al totale dell’occupazione ha incominciato a crescere in Italia dalla fine degli anni ’70; e quella crescita ha subito semmai una battuta d’arresto proprio negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della legge Biagi.

Dove va cercata, allora, la causa dell’aumento del precariato?

Io vedo essenzialmente due cause: l’eccesso di rigidità della protezione garantita dall’ordinamento ai dipendenti pubblici di ruolo e ai lavoratori regolari delle imprese medie e grandi; e l’allargarsi della forbice della disuguaglianza di produttività tra i più forti e i più deboli, che è un fenomeno universale nell’Occidente sviluppato.

Insomma, la legge Biagi è da conservare o da cambiare?

La prima parte della legge, sui servizi per l’impiego, va bene così com’è, salvo rendere sempre più efficienti i servizi nel mercato del lavoro e migliorare il trattamento di disoccupazione. Per la parte che riguarda la disciplina dei rapporti di lavoro, se c’è una critica da muovere alla legge Biagi è che essa non ha inciso sul dualismo del nostro tessuto produttivo: essa non ha cambiato una virgola dello Statuto dei lavoratori del 1970, né del libro V del Codice civile, cioè della disciplina del rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato.

Lei invece che cosa propone?

Io proporrei a sindacati e imprenditori una grande e coraggiosa operazione di redistribuzione delle tutele: tutti a tempo indeterminato, con una congrua protezione indennitaria e assicurativa per il caso di licenziamento per motivi economici od organizzativi. Ma l’articolo 18 si applica solo per il licenziamento disciplinare e contro i casi di licenziamento discriminatorio, non nei casi di licenziamento per motivi economici.

E chi pagherebbe il costo della protezione nel caso di licenziamento economico?

Sia il costo dell’indennizzo, proporzionato all’anzianità di servizio del lavoratore, sia il costo dell’assicurazione contro la disoccupazione dovrebbero essere posti interamente a carico delle imprese, con un meccanismo bonus-malus, in modo che l’impresa che licenzia di più per motivi economici od organizzativi sopporti un costo crescente, oltre che per gli indennizzi pagati direttamente ai lavoratori, anche per il contributo assicurativo.

Dal posto fisso al percorso lavorativo: è il passaggio del nuovo mercato del lavoro. Che welfare occorre per garantire flessibilità e al contempo fornire adeguati strumenti di certezza nel percorso lavorativo sino alla pensione?

Occorre innanzitutto un sistema nel quale tutti i contributi versati, in qualsiasi gestione, siano ricongiungibili automaticamente. Con il protocollo sul welfare del luglio scorso si è fatto un passo avanti importante in questa direzione. Occorre inoltre un sistema capace di colmare i vuoti di contribuzione che possono determinarsi nella fase del passaggio da un posto all’altro: un passaggio che per la maggior parte delle persone si ripeterà presumibilmente con sempre maggiore frequenza.

Nel nuovo sistema dei servizi al mercato del lavoro che ruolo gioca il privato e il privato sociale?

Un ruolo sempre più simile a quello dei servizi pubblici: le risorse statali e regionali destinate a questi servizi devono andare a chi sa svolgere meglio il servizio, pubblico o privato che sia. Il problema è istituire un organo di valutazione veramente indipendente, che impedisca clientelismi e operi con grande trasparenza.



È d’accordo sull’affermazione che senza un reale inserimento del Mezzogiorno nei processi di sviluppo, l’Italia ha una zavorra che non le permette di competere a lungo con i suoi competitori tradizionali?
Indichi una priorità e un’azione operativa che ritiene possa aiutare ad affrontare la questione meridionale.
Credo che nessuno possa dissentire da questa affermazione.
La priorità è una grande campagna per affermare la cultura e la prassi della legalità nel Mezzogiorno. Iniziative come quella ultimamente adottata dalla Confindustria, di esigere dai propri associati il rifiuto del pagamento del pizzo, devono essere adottate da tutte le associazioni imprenditoriali e professionali e devono essere appoggiate con grande forza e concretezza dalle autorità pubbliche. Ma a questa campagna devono accompagnarsi anche un grande investimento nel miglioramento delle infrastrutture e una riforma del sistema delle relazioni industriali, che consenta la negoziazione di standard di trattamento di cui si possa esigere realisticamente il rispetto da parte di tutta l’economia meridionale.

Perché la Germania c’è riuscita con l’ex DDR e noi non ci stiamo riuscendo?

Tra le molte differenze di approccio alla questione metterei proprio il fatto che in Germania si è abbandonato il rigido centralismo della contrattazione collettiva. Gli standard di trattamento hanno potuto così essere differenziati per favorire lo sviluppo delle regioni orientali, in grave ritardo rispetto al resto del Paese.

In che cosa dovrebbe consistere, più precisamente, la riforma del nostro sistema di relazioni industriali?

Spostare il baricentro della contrattazione collettiva verso la periferia. La riforma che propongo, per realizzare questo decentramento senza generare tensioni eccessive, consiste nel conservare il contratto collettivo nazionale soltanto come disciplina di default. In altre parole: lo si applica solo finché esso non viene sostituito o parzialmente derogato da un contratto collettivo stipulato a un livello più basso – regionale o aziendale da una coalizione sindacale rappresentativa della maggioranza dei lavoratori interessati. Questo consentirà la sperimentazione di forme nuove di organizzazione del lavoro, ma anche di una nuova struttura della retribuzione, che dia più spazio alla parte del salario collegata al risultato. E nel Mezzogiorno consentirà l’adattamento degli standard alle necessità dello sviluppo delle zone in grave ritardo.

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