Troppo spesso l’occupazione in Italia viene valutata dalla prospettiva falsata dell’ideologia ed associata alla parola “precarietà”, efficace per animare una trasmissione televisiva, ma rischiosa perché fa perdere di vista la situazione oggettiva in cui si trova oggi il nostro mercato del lavoro.
Con una disoccupazione ai minimi storici, una crescita rilevante del lavoro subordinato ed uno sviluppo del lavoro flessibile che continua a mantenersi sotto la media europea, oggi possiamo dire che il nostro mercato del lavoro è molto più dinamico ed inclusivo rispetto a dieci anni fa.
Il merito – lo riconosce anche l’Europa – va attribuito alle riforme del lavoro intervenute negli ultimi anni, che hanno introdotto un minimo di flessibilità nel mercato del lavoro più rigido dei Paesi sviluppati, senza per questo affievolire le tutele e le garanzie per i lavoratori.
Per il mondo del lavoro, però, il percorso di modernizzazione e di adattamento al nuovo contesto di riferimento non può dirsi ancora concluso, perché ampia resta la distanza dagli obiettivi di sviluppo che le esperienze di altri Paesi più virtuosi e competitivi ci indicano.
Dobbiamo aumentare ancora i livelli di occupazione, con un’attenzione particolare per le categorie più a rischio di esclusione come le donne, i giovani del Mezzogiorno, i lavoratori ultracinquantenni e dobbiamo, allo stesso tempo, far sì che le transizioni da un’esperienza di lavoro all’altra siano accompagnate da un adeguato sistema di tutele attive.
Di fronte a questa sfida sono possibili due diverse risposte. La prima – e, forse, la più facile – è quella di chi si chiude al nuovo, rifiutandolo o, peggio, combattendolo, magari con il sostegno di una facile demagogia. Ma si tratta di un approccio improduttivo, che rischierebbe di condannare il nostro mercato del lavoro ad una crescita sempre al di sotto del suo potenziale, lasciando intatti i privilegi di chi è “dentro” e condannando all’esclusione tutti coloro che sono ancora “fuori”.
L’altra risposta, invece, è quella che si fonda sul coraggio di guardare alle criticità di oggi nella prospettiva delle generazioni che verranno e sull’impegno a trovare strumenti innovativi per gestire il cambiamento e rispondere alle nuove esigenze.
È questo il salto di qualità che serve al nostro mercato del lavoro per diventare ancor più dinamico ed inclusivo. È l’approccio finalmente nuovo che oggi anche l’Europa, dopo l’Ocse, ci indica. È la strategia della flexicurity europea, che consiste nel combinare lo sviluppo di una legislazione più flessibile con strategie di formazione lungo tutto l’arco della vita, con politiche attive del lavoro e con moderni sistemi di sicurezza sociale.
Questa rappresenta la direzione verso la quale ci siamo rivolti con il Protocollo sul welfare siglato nel luglio scorso insieme a governo e sindacati. Si tratta, infatti, di un accordo in grado di aprire una fase di ulteriori innovazioni che possono avvicinare l’Italia alle politiche – ed ai risultati – di gran parte dei Paesi europei. Per questo crediamo che sia un’intesa da confermare e valorizzare subito con interventi concreti.
Nel quadro della strategia complessiva di adeguamento del mercato del lavoro al nuovo contesto di riferimento, rientra, però, anche una questione culturale forte che va posta con fermezza. Occorre far sì che il lavoro ed il merito tornino ad essere valori positivi. Ciò comporta per tutti, certo, anche l’accettazione del sacrificio e del rischio, che può risultare a volte difficile nella società del “voglio tutto e subito”. Come ci hanno dimostrato le generazioni prima di noi, la sfida dello sviluppo del Paese si gioca, però, anche su questo.
Con una disoccupazione ai minimi storici, una crescita rilevante del lavoro subordinato ed uno sviluppo del lavoro flessibile che continua a mantenersi sotto la media europea, oggi possiamo dire che il nostro mercato del lavoro è molto più dinamico ed inclusivo rispetto a dieci anni fa.
Il merito – lo riconosce anche l’Europa – va attribuito alle riforme del lavoro intervenute negli ultimi anni, che hanno introdotto un minimo di flessibilità nel mercato del lavoro più rigido dei Paesi sviluppati, senza per questo affievolire le tutele e le garanzie per i lavoratori.
Per il mondo del lavoro, però, il percorso di modernizzazione e di adattamento al nuovo contesto di riferimento non può dirsi ancora concluso, perché ampia resta la distanza dagli obiettivi di sviluppo che le esperienze di altri Paesi più virtuosi e competitivi ci indicano.
Dobbiamo aumentare ancora i livelli di occupazione, con un’attenzione particolare per le categorie più a rischio di esclusione come le donne, i giovani del Mezzogiorno, i lavoratori ultracinquantenni e dobbiamo, allo stesso tempo, far sì che le transizioni da un’esperienza di lavoro all’altra siano accompagnate da un adeguato sistema di tutele attive.
Di fronte a questa sfida sono possibili due diverse risposte. La prima – e, forse, la più facile – è quella di chi si chiude al nuovo, rifiutandolo o, peggio, combattendolo, magari con il sostegno di una facile demagogia. Ma si tratta di un approccio improduttivo, che rischierebbe di condannare il nostro mercato del lavoro ad una crescita sempre al di sotto del suo potenziale, lasciando intatti i privilegi di chi è “dentro” e condannando all’esclusione tutti coloro che sono ancora “fuori”.
L’altra risposta, invece, è quella che si fonda sul coraggio di guardare alle criticità di oggi nella prospettiva delle generazioni che verranno e sull’impegno a trovare strumenti innovativi per gestire il cambiamento e rispondere alle nuove esigenze.
È questo il salto di qualità che serve al nostro mercato del lavoro per diventare ancor più dinamico ed inclusivo. È l’approccio finalmente nuovo che oggi anche l’Europa, dopo l’Ocse, ci indica. È la strategia della flexicurity europea, che consiste nel combinare lo sviluppo di una legislazione più flessibile con strategie di formazione lungo tutto l’arco della vita, con politiche attive del lavoro e con moderni sistemi di sicurezza sociale.
Questa rappresenta la direzione verso la quale ci siamo rivolti con il Protocollo sul welfare siglato nel luglio scorso insieme a governo e sindacati. Si tratta, infatti, di un accordo in grado di aprire una fase di ulteriori innovazioni che possono avvicinare l’Italia alle politiche – ed ai risultati – di gran parte dei Paesi europei. Per questo crediamo che sia un’intesa da confermare e valorizzare subito con interventi concreti.
Nel quadro della strategia complessiva di adeguamento del mercato del lavoro al nuovo contesto di riferimento, rientra, però, anche una questione culturale forte che va posta con fermezza. Occorre far sì che il lavoro ed il merito tornino ad essere valori positivi. Ciò comporta per tutti, certo, anche l’accettazione del sacrificio e del rischio, che può risultare a volte difficile nella società del “voglio tutto e subito”. Come ci hanno dimostrato le generazioni prima di noi, la sfida dello sviluppo del Paese si gioca, però, anche su questo.