Negli anni ruggenti del sindacalismo operaio ricorreva un’analisi semplicistica che veniva ripetuta con la sequenza di un rosario dell’ideologia: la classe operaia è Torino, Torino è la Fiat, la Fiat è Mirafiori, Mirafiori è la catena di montaggio. In conclusione, la causa della classe operaia finiva per rinchiudersi nel perimetro dei lavoratori adibiti al monumento dell’organizzazione tayloristica del lavoro: la catena di montaggio, appunto. In sostanza le «magnifiche sorti e progressive» del mondo del lavoro si raccoglievano intorno al nucleo duro di alcune migliaia di lavoratori, ritenuti particolarmente oppressi da un modello produttivo aspramente contestato non solo sul piano politico-sindacale ma anche su quello culturale, attraverso una ricca produzione saggistica, letteraria e cinematografica (anche se nessuno riuscì mai ad eguagliare la bravura di Charlot in “Luci della città”).

Oggi quel modello organizzativo appartiene all’archeologia industriale (anche se viene sempre evocato ogni volta che, da sinistra, si tenta di difendere le pensioni d’anzianità e di allargare la griglia dei lavori usuranti). Ma lo schema di ragionamento non è cambiato: come se si dovesse reagire ad un riflesso condizionato, in ogni fase storica diventa necessario trovare un “nocciolo duro” dello sfruttamento capitalistico su cui fare leva. Basterebbe scorrere il discorso di investitura di Walter Veltroni, pronunciato non a caso a Torino (e il candidato alla guida del Pd non è certo uno dei peggiori della sua parte politica), per trovarvi una chiara indicazione programmatica: sono i precari la nuova priorità e, tra di loro, gli addetti ai call center, di cui si parla come fossero la sola opportunità lavorativa per i giovani italiani e dove, pochi anni dopo, scatta la “trappola della precarietà”.

Ma quanti sono gli occupati nei call center? Il settore è in forte espansione perché le sue modalità operative rispondono ad esigenze di riorganizzazione del front office degli enti pubblici, delle aziende di servizi e di tante altre realtà.
Si tratta di misure di outsourcing che vanno incontro alle necessità degli utenti, stanchi di colloquiare inutilmente coi vecchi centralini della “incomunicabilità accertata”, dove – quando andava bene – si sentiva rispondere col classico sgarbato «Dica?….». È un processo in corso in tutto il mondo. Tanto che si parla – con uno stupore farisaico – del fiorire dei call center delle aziende Usa e del Regno Unito in India, grazie alla confidenza degli operatori con la lingua inglese.

Si stima che in Italia le persone occupate nei call center siano oltre 200mila. Mentre alcune aziende gestiscono in proprio queste funzioni, molte altre, soprattutto se pubbliche, devono ricorrere a gare regolari. Non è semplice, allora, per le ditte specializzate caricarsi di organici fissi, quando il loro giro d’affari potrebbe ridursi da un momento all’altro, in un contesto di competizione effettiva, fondata sul criterio del minor costo. Ecco perché la politica di stabilizzazione del lavoro nei call center (peraltro avviata in forza di una norma della legge Biagi), se fosse portata avanti dal governo italiano con eccessiva disinvoltura, finirebbe per produrre una massiccia delocalizzazione di quest’attività. Se i call center italiani non li hanno ancora portati in Romania è perché la nostra lingua non la parlano in modo adeguato per sostenere un minimo di conversazione con gli utenti.

Nel nostro Paese, purtroppo, non siamo mai in grado di anticipare i problemi e di trovare adeguate soluzioni in tempo. È evidente che si sono formate sacche di precariato difficili da svuotare e che il popolo dei call center s’iscrive in questa problematica. Ma non è più consentita una rappresentazione della realtà in cui l’eccezione, seppure grave e consistente, diventi la regola. Eppure, quando si ricorda che il tasso d’occupazione in Italia non è mai stato da lungo tempo così elevato e che quello della disoccupazione si è quasi dimezzato in pochi anni (un tasso ormai inferiore al 6% denota certamente, in un Paese caratterizzato da profondi divari, che in molte aree siamo ben oltre il pieno impiego), si risponde che, in verità, è solo “cattiva occupazione”.

Anche l’Istat ci mette del suo, continuando a certificare – senza allegare un solo dato a conforto – che la disoccupazione diminuisce perché la gente è talmente sfiduciata da non cercare neppure più lavoro. È a questo punto che, di solito, comincia la mistica del precariato, con la medesima litania fastidiosa ed insistente che abbiamo conosciuto quando, nella passata legislatura, iniziò la campagna per l’impoverimento dei ceti medi, seguita a ruota da quella sulla “quarta settimana”, quando le famiglie non avevano più soldi per comprare il latte ai loro bambini. In sostanza, dobbiamo chiederci se non stiamo creando una generazione di irresponsabili, che trova più semplice prendersela col mondo piuttosto che interrogarsi sulle ragioni della propria ritardata o mancata affermazione nel lavoro e nella vita.

Non è responsabilità delle giovani generazioni se su di loro è precipitata tutta la flessibilità di cui ha bisogno il sistema economico per non grippare. Per cambiare le cose, però, occorre individuare lucidamente i nodi da sciogliere e gli interessi da sconfiggere. Gran parte del lavoro manuale viene rifiutato dai nostri figli “precari immaginari”, ancorché si tratti di una prospettiva di occupazione stabile.


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