Nel dibattito svoltosi lunedì scorso tra Walter Veltroni e Gianni Alemanno su «Quale sussidiarietà per Roma?», si sono sentite affermazioni interessanti per chiunque non riduca la politica a vuota lotta tra schieramenti. Il primo fatto nuovo è che entrambi gli interlocutori si sono detti d’accordo sul fatto che una «welfare community» debba sostituire il vecchio welfare state, cosa per nulla scontata, né a destra né a sinistra.
Gianni Alemanno ha sottolineato che la welfare community si realizza «solo attraverso una più ampia libertà di scelta da parte dell’utente, altrimenti si rischia di trasformare la parola sussidiarietà in uno slogan che per il centrosinistra equivale a un nuovo dirigismo e per il centrodestra a un nuovo liberismo». Da parte sua Veltroni ha aggiunto: «All’idea di welfare state, in cui è lo Stato che fronteggia un’emergenza, abbiamo applicato quella che per noi è una felice ossessione, ovvero la welfare community, la città come comunità. A fronteggiare le emergenze c’è, sì, l’istituzione, ma anche la società romana nelle sue diverse articolazioni».
Il tema è certamente tra i più attuali, come mostra un altro convegno organizzato di recente dall’IReR, Istituto di Ricerca della Regione Lombardia, in cui il prof. Le Grand, della London School of Economics and Political Science, ha insistito sul fatto che la burocrazia, la rigidità e il predominare di un mondo amministrativo chiuso, tipico del welfare state, porta non solo a inefficienza, come molti dicono, ma anche a iniquità.
La risposta positiva all’ormai decadente welfare state è, per l’eminente studioso, quella dei quasi-mercati, in cui esiste pluralismo d’offerta (con erogatori di servizi, statali, privati e privati non profit) e libertà di scelta degli utenti (fra quegli erogatori che siano stati accreditati in base alla loro qualità ed equità). Per ciò che concerne il finanziamento, «i soldi devono seguire le scelte degli utenti». In altre parole, le tasse non vengono erogate attraverso spesa pubblica e gestione diretta di servizi da parte di enti pubblici o realtà favorite clientelarmente, ma vanno a finanziare gli erogatori scelti dagli utenti, attraverso voucher, detrazioni e deduzioni fiscali. In questo modo, non solo la competizione migliora nel complesso la qualità dei servizi erogati, ma sono favoriti anche i meno abbienti, più liberi di scegliere i servizi di qualità.
In Italia queste affermazioni suonano, a dire poco, rivoluzionarie perché molti addetti ai lavori continuano a ripetere che la libertà di scelta non garantirebbe i livelli minimi di assistenza, di istruzione, di salute per i più poveri.
Le affermazioni sentite nel dibattito romano debbono giungere a queste conseguenze operative per divenire l’alba di un nuovo modello di welfare. Accadrà? Veltroni avrà veramente l’intenzione e il coraggio di “spaccare” nei confronti dei moltissimi della coalizione di centro-sinistra legati ad obsoleti statalismi o assistenzialismi? Quanti nel centrodestra avranno il coraggio di Alemanno e realizzeranno quei prodromi di «welfare community» che solo certe regioni stanno perseguendo?
Se ciò avvenisse sarebbe un bene anche per il dibattito italiano che sembra essere interessato solo a scovare nuovi demiurghi o a imbalsamare quelli esistenti, disinteressandosi dei problemi reali della società.



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