Come dimostrano le proteste di esponenti della sinistra radicale nella maggioranza di governo, molti credono che per ottenere un’occupazione stabile sono necessari un mercato del lavoro dalle regole rigide e strumenti per lo sviluppo dell’occupazione esclusivamente di diritto pubblico. Come in ogni attività umana non mancano gli abusi, ma riguardo al trend generale, i dati parlano chiaro e dicono qualcosa di diverso. I dati Istat attestano che i primi anni di attuazione della legge Biagi hanno visto una generale riduzione del tasso di disoccupazione, che nel primo trimestre del 2007 è divenuto, al netto dei fattori stagionali, del 6,2%, il più basso dal ‘92.
Tale crescita occupazionale riguarda soprattutto le fasce deboli: sempre nel primo trimestre 2007 la disoccupazione è diminuita, rispetto a un anno prima, soprattutto tra le donne (-1,9% contro -0,8% tra gli uomini), al Sud (-2,7% contro -0,4 e -0,9% rispettivamente al Nord e al Centro), tra i giovani (nel 2006 il tasso di disoccupazione tra i 15 e 24 anni è sceso al 21,6%). Il tasso di occupazione (percentuale di persone occupate sul totale della popolazione tra i 15 e i 64 anni), che è storicamente di molto inferiore a quello degli altri Paesi sviluppati, è cresciuto nei 5 anni 2001-2006 del 2% e si è portato nel 2006 al 58,4% avvicinandosi alla media europea, nel frattempo cresciuta dello 0,4% e divenuta del 64,4%.
Come dicono i più autorevoli commentatori, questi risultati, corroborati dal fatto che in questi anni l’occupazione é cresciuta tendenzialmente più del Pil in anni considerati di crisi, sono da attribuirsi alla legge Biagi.
Un’ulteriore prova viene da una recente ricerca, ancora inedita, condotta per il Crisp dell’Università Bicocca di Milano dal prof. Mezzanzanica sull’andamento del lavoro interinale tra il 2000 e il 2006 nella provincia di Milano. Da notare che in Lombardia è in vigore una legge regionale ancora più innovativa della legge Biagi perché promuove centri e agenzie pubbliche e private che facilitano la ricerca del lavoro, sul modello dei Paesi più avanzati. Nel periodo oggetto di indagine, la probabilità di passare da un contratto di lavoro interinale a un contratto a tempo indeterminato è del 75,01%; a un contratto a tempo determinato o a un altro interinale del 12,94%; a una situazione di disoccupazione, del 10,94%. Chi ottiene un contratto di lavoro a tempo indeterminato, dopo contratti di lavoro interinali, lo fa prevalentemente entro i 42 mesi, tempo non brevissimo, ma che si può considerare di assestamento del percorso professionale, soprattutto per i lavoratori più giovani.
La provincia di Milano non è l’Italia, ma i dati sono eloquenti e mostrano che laddove si promuovano politiche attive per il lavoro che coinvolgono soprattutto il privato sociale in un’ottica sussidiaria, sicuramente non si provoca un aumento del precariato. Piuttosto si permette l’ingresso nel mercato del lavoro di categorie fino a ieri escluse e si pongono le premesse per rapporti di lavoro più stabili. Opporsi a questi cambiamenti per pregiudizi ideologici e, presumibilmente, per posizioni di rendita e potere da difendere, significa perciò fare il male della gente, soprattutto dei più deboli nel mercato del lavoro e nella vita.
© Il Giornale



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