L’attuale situazione economica pone delle domande vitali non solo perché diminuisce la capacità di acquisto dei beni elementari, ma anche perché mette in pericolo il lavoro, bene altrettanto essenziale per la persona umana. Nei dibattiti di questi giorni, quando si accenna a questo fatto il problema viene ridotto ai soli aspetti economici o sindacali, trascurando il valore antropologico del lavorare, il significato che esso ha per l’uomo. Tale riduzione è frutto delle ideologie del ‘900, che hanno trascurato il legame che unisce originariamente l’attività lavorativa umana e la sua dimensione morale, considerandolo solo nei suoi aspetti di fatica e schiavitù che rendono necessari interventi per limitarlo e garantirlo solo nei suoi aspetti  retributivi e di sicurezza.



Coloro che come Gierke, Weber e Durkheim dettero origine al diritto del lavoro, considerato da molti come il diritto del ‘900 e come caratteristica dei paesi europei, si limitarono a considerare solo le disuguaglianze del lavoro industriale, mentre le teorie marxiste si concentrarono sull’acquisizione del potere da parte della classe operaia e quelle socialdemocratiche sulla legislazione come forza compensatrice. Il risultato è stata la nascita di un’utopia che esalta il lavoro come mera operatività efficace e semplicemente organizzabile che ne nasconde il valore di strumento di realizzazione della persona umana.



È vero che non sono mancate voci diverse, da quella del sapere dello scopo del proprio lavoro e del lavoro come compito di Max Scheler, a quelle dei Cahiers de la Quinzaine di Charles Peguy in cui si sviluppa l’idea della positività antropologica del lavoro come ouvrage bien fait al quale l’uomo concorre con la sua creatività, ma è stata soprattutto la dottrina sociale della Chiesa che ha affermato con forza il valore del lavoro come fattore di sviluppo della persona umana a partire dalla domanda di cosa sia il lavoro per l’uomo.

Giovanni Paolo II, in un incontro internazionale, nel 2000, ebbe a dire che il lavoro “è il gesto libero di autentica partecipazione alla creazione … componente essenziale per la realizzazione dell’uomo … che è chiamato da Dio a dominare la terra”. E recentemente Benedetto XVI, al Collège des Bernardins, ricordando l’esperienza dei benedettini, in cui il lavoro era parte costitutiva della Regola, modalità integrante del quaerere Deo, precisa che il lavorare degli uomini è “una espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo in questo modo partecipa all’operare di Dio nella creazione del mondo”. E aggiunge che è proprio dal monachesimo che si è sviluppata la cultura del lavoro che ha permesso lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo.



E invero il principio della dignità del lavoro umano, affermato dalla Chiesa, ha influenzato il diritto del lavoro, come ha sostenuto un grande giurista del lavoro, Luigi Mengoni: “in questo campo del diritto si è creato un felice punto di incontro tra il pensiero giuridico moderno e l’insegnamento della Chiesa romana perennemente fondato sull’affermazione della persona umana come valore giuridico fondamentale”.

E nella Costituzione italiana il lavoro posto a base della Repubblica, non è fine in sé, come scrisse un altro grande giurista, Costantino Mortati, o mero strumento di guadagno, ma mezzo di affermazione della personalità del singolo, garanzia di sviluppo delle capacità umane e del loro impiego.

Di fronte alla crisi di grandi dimensioni cui stiamo di fronte, uno dei modi per uscirne, nella necessaria pazienza dei tempi lunghi, consisterà nel recuperare per il popolo questo senso del lavoro, che esso non risponde solo ai bisogni materiali, ma al grande bisogno di Infinito che è inciso nel cuore di ogni uomo, e così tutto può ricominciare.