Il tema del lavoro è stato al centro della recente campagna elettorale ed oggi è tra i punti prioritari dell’agenda di chi si appresta a governare. Dopo gli slogan un po’ ad effetto, si tratta ora di vedere cosa è realisticamente possibile fare in termini di compatibilità economiche, ma soprattutto occorre definire quali siano i cardini di un intervento strategico di medio e lungo periodo. Da questo punto di vista concordo pienamente con Treu sul fatto che la priorità va data agli interventi che stimolano la crescita e la competitività.
È vero che, di per sé, la crescita e gli stessi aumenti di produttività non generano automaticamente un incremento dei salari, ma l’esperienza insegna che al crescere della ricchezza prodotta e al crescere dei margini di profitto si lega nel tempo una crescita dei salari. Ora, i tassi di crescita del nostro paese sono stati costantemente più bassi di quelli dell’Eurozona, generando, a partire dagli anni ‘90, una crescita del differenziale rispetto ai nostri competitor; cosi come nel periodo 2001-2006 siamo, tra i 30 Paesi Ocse, ultimi per produttività del lavoro e per produttività generale e addirittura nei sei anni la produttività del nostro sistema risulta negativa.
Certamente questo dipende anche da una specializzazione settoriale che ci vede poco presenti nei settori in cui si sono manifestati i più alti incrementi di produttività, ma non secondario è il ruolo giocato dalle politiche del lavoro.
Occorre, come sostengono Treu e Cazzola, che si apra il negoziato sulla riforma degli assetti contrattuali. Governo e parti sociali devono far cadere i tabù, occorre premiare la produttività sia nel settore privato, sia nel pubblico impiego, e per farlo si deve andare nella direzione di una contrattazione decentrata con forti gradi di autonomia a livello aziendale; essa permetterebbe al contempo di premiare il merito e in alcune aree del paese o in certi settori di favorire l’emersione dal lavoro nero o la stabilizzazione dei posti di lavoro.
Più in generale poi occorre pensare a un nuovo welfare che non garantisca sussidi a pioggia del tipo salario minimo garantito, ma proponga politiche attive legate a servizi di orientamento, formazione e di facilitazione all’incontro tra domanda e offerta di lavoro; politiche che favoriscano la crescita del tasso di occupazione, sia direttamente valorizzando strumenti di inserimento come l’apprendistato e i tirocini, sia indirettamente favorendo la creazione di servizi come gli asili nido. Queste politiche devono poi inserirsi in un contesto di politiche sussidiarie in cui vi sia la partecipazione, accanto ai soggetti pubblici, di quelli privati; molto spesso infatti le reti sociali del privato sono in grado di sostenere questi percorsi a costi nettamente inferiori rispetto a quelli dell’intervento pubblico.
Un tema centrale e non eludibile e poi quello connesso alla pressione fiscale, sia sul versante delle imprese, in cui occorre premiare quelle che investono con un’attenzione particolare alle Pmi che sono la parte più dinamica dello sviluppo del paese e che creano nuovi posti di lavoro, sia sul lato dei lavoratori, anche attraverso politiche che tengano conto del quoziente familiare. Collaterale al tema fiscale (che certo necessita di trovare coperture economiche non banali), vi è poi quello della riduzione dei costi della burocrazia che gravano su ogni impresa (qui non servono risorse aggiuntive, anzi se ne liberano). In questo campo si deve superare il principio del controllo preventivo inteso come sfiducia nei confronti dell’imprenditore, considerato un potenziale evasore prima che una preziosa risorsa per lo sviluppo. Entrambi questi interventi influenzano fortemente la possibilità di generare margini per il sistema produttivo e quindi di liberare risorse per i salari.
A fianco di queste politiche si dovrà poi nel breve periodo, magari utilizzando qualche tesoretto, prevedere qualche intervento ad hoc come la detassazione degli straordinari o un sostegno ai redditi minimi. Questi ultimi interventi però non potranno protrarsi per lungo tempo, sia per un problema di compatibilità economiche, sia perché essi rispondono all’esigenza di sopravvivenza delle persone in difficoltà, ma non rispondono all’esigenza che ogni persona ha di sentirsi protagonista nella costruzione del proprio percorso di vita e nel contribuire al benessere della propria famiglia e del Paese. Il lavoro infatti non è solo uno strumento per ottenere un reddito, ma è innanzittutto la modalità espressiva per eccellenza dell’uomo che mette in gioco i propri talenti per trasformare la realtà. Come direbbe Vittadini, se non recuperiamo “gli occhi di tigre” e la capacità di sacrificio che nasce da una passione ideale, non ci sarà Stato o sindacato che potrà portare a un benessere per tutti.