Mentre le cronache parlano di assalto agli outlets per i saldi post natalizi, i giornali hanno diffuso gli ultimi dati relativi agli stipendi degli italiani. Il nostro reddito medio è tra i più bassi in Europa, 19.100 euro l’anno, e ci piazza al 23simo posto nella classifica dei 30 paesi Ocse, che vede in testa la solita Germania. Eccessiva pressione fiscale, contributi sociali troppo alti, salari lordi troppo bassi sono i fattori che ci penalizzano. Ma siamo sicuri che sia solo questo? Ilsussidiario.net lo ha chiesto a Luigi Campiglio, economista e prorettore della Cattolica.



Questi dati la sorprendono?

In realtà no. Prendiamo il primo paese in cima alla classifica Ocse, cioè la Germania. In base alle stime di Eurostat – vado a memoria – in Italia il costo del lavoro orario nell’industria manifatturiera è intorno ai 20 euro l’ora, in Germania è di circa 30 euro l’ora. Se ci fermassimo a questa semplice considerazione, la Germania sarebbe un paese fuori mercato, invece è il primo esportatore al mondo. Quello che conta non è la solo la differenza di costo del lavoro, ma la differenza di costo del lavoro per unità di prodotto.



 

A parità di potere d’acquisto la Germania è in testa con uno stipendio medio lordo di 52mila dollari, l’Italia è 22sima con 30mila dollari. Questo distacco cosa le dice?

Ho parlato di costo del lavoro orario di 20 e 30 euro rispettivamente per Italia e Germania, quindi come vede i conti tornano. La differenza annua si attenua un poco per il fatto che in Germania, sulla base di precisi accordi sindacali, il numero di ore lavorate è più basso che da noi.

Ma allora il nostro problema dove sta?

La questione vera non è tanto nel divario degli stipendi, che pure c’è. L’Italia ha un livello di redditi annui più basso perché nel nostro paese la capacità di fare innovazione, in termini di investimenti e di imprese, è relativamente più bassa.



È questo a frenare il nostro sviluppo?

Sì. È un dato uniforme che nelle nostre imprese, a parità di condizioni, i livelli dei salari sono più bassi nelle piccole imprese rispetto alle grandi. Questo non vuol dire che le piccole imprese siano cattive e le grandi siano buone, ma che il livello di tecnologia e di valore aggiunto pro capite, e torniamo al punto, è più basso nelle piccole imprese e più elevato nelle grandi. Ora, si dà il caso che la Germania abbia un numero elevato di grandi imprese, la gran parte delle quali sono orientate all’esportazione e incorporano una quantità di capitale umano molto più elevata di quanto avviene in altri paesi, inclusa l’Italia.

Allora non è vero che siamo più poveri degli altri?

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Non necessariamente. Il nostro 20 per cento di economia sommersa rimane un problema enorme e ci penalizza. La Germania non solo ha un reddito da lavoro più elevato, ma ha anche molto meno sommerso dell’Italia. Da noi il sommerso è tante cose: in primis è evasione pura, un modo per non pagare le tasse, ma non è solo questo. È anche un “rifugio” contro l’eccessiva pressione fiscale, o un modo quasi “necessario” per stare nel mercato.

 

Una giovane famiglia che intende comprare casa e ha da parte 150mila euro, a Milano è meglio che lasci perdere, a Berlino compra una casa più che dignitosa. Allora?

 

Questo mi suggerisce due aspetti. Il primo è di carattere generale. In Italia vogliamo aumentare i redditi da lavoro? Investiamo di più in capitale umano, che  equivale a dire la persona e che per noi è l’unico capitale realmente decisivo. Secondo: quel grave divario nei prezzi delle case si chiama rendita. La dimensione delle posizioni di rendita, cioè dei redditi acquisiti ma non in virtù di un merito o del sacrificio, in Italia è troppo elevata. La Germania da questo punto di vista è socialmente molto più ordinata di noi.

 

Include nella rendita anche la nostra peculiare saggezza di risparmiatori? Siamo più prudenti, non viviamo a debito come gli americani, e adesso non rinunciamo ai saldi.

 

È vero, la nostra capacità di risparmio la fa da padrone. Torniamo però all’esempio immobiliare, visto che gli italiani sono grandi possessori di immobili. La casa che qualche anno fa costava 300mila euro, oggi ne vale 400mila. Non dimentichiamo che questa è una ricchezza un po’ evanescente, perché nel momento in cui tutti decidessero di mettere sul mercato i loro beni immobili i prezzi delle case affonderebbero, o per meglio dire tornerebbero normali. La nostra scarsa capacità di trasformare quel risparmio in investimento produttivo, e in particolare di capitale umano, fa sì che la nostra ricchezza rimanga “sulla carta”.

 

Ma allora la nostra predisposizione al consumo, che pare essersi ridotta, può aiutare la nostra economia o no?

 

Ci andrei piano sul fatto che non si è ridotta. I consumi, se mettiamo tra parentesi questo momento particolarissimo, non solo non sono aumentati, ma sono rimasti al palo. Gli indicatori sulle vendite al consumo dei negozi sono anzi diminuiti in valore, e quindi probabilmente ancor di più in quantità.

 

Su Repubblica di lunedì Chiara Saraceno ha parlato di provvedimenti insufficienti del governo perché “categoriali” – social card, bonus fiscale, cig in deroga – non adatti a proteggere tutti coloro che sono in un identico stato di bisogno, e che sono in crescita.

 

 

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In questa fase di criticità economica, soprattutto sul fronte del debito – e questo non va dimenticato – mirare a delle categorie di esclusi al meglio delle risorse disponibili a me sembra una politica saggia. Questo non esclude che in un qualche futuro si arrivi a forme di universalismo, intanto però prendiamo atto che non riusciamo a farlo nemmeno con gli assegni familiari. La domanda da porsi invece è un’altra: chi sono gli esclusi?

 

Tutti coloro per i quali si potrebbe pensare ad una misura di reddito minimo. O no?

 

Sì ma vanno qualificati. Io per esempio vi vedo non solo i disoccupati, ma anche le famiglie con figli minori. Esse figurano senz’altro tra i grandi assenti tra i destinatari delle politiche. Il vero problema è far sì che le categorie in difficoltà non siano individuate attraverso gli occhiali di qualche pregiudizio deformante.

 

Qual è la prima e più urgente riforma che lei auspica per il 2010?

 

Il nostro è un paese in cui tanti, troppi nodi stanno venendo al pettine per il fatto che in nessun modo, o in modo solo episodico, si è considerato che il vero centro motore del nostro paese è la famiglia. La famiglia è essa stessa “impresa” e le dobbiamo il benessere della nostra storia recente. Se aiutiamo l’impresa-azienda, perché non dobbiamo aiutare l’impresa-famiglia?

 

Molti devono ammettere che la famiglia è ancora oggi l’ammortizzatore sociale più importante per chi resta senza lavoro.

 

 

Certamente. Ma se non la aiutiamo, o meglio: se non le riconosciamo il contributo che dà alla società come accade per qualunque impresa, rischia di affogare.

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