L’Accademia Reale delle Scienze Svedese ha annunciato che il Premio della Banca di Svezia per le Scienze Economiche in memoria di Alfred Nobel, noto come “Premio Nobel per l’Economia”, è stato assegnato quest’anno a Peter Diamond del MIT di Cambridge, Massachusetts, Dale Mortensen della Northwestern University di Evanston, Illinois, e a Christopher Pissarides della London School of Economics and Political Science.



I tre economisti hanno dato molteplici contributi alla scienza economica e, in particolare, i lavori di Diamond sono unanimemente riconosciuti come punti di riferimento su temi che spaziano dagli schemi di tassazione ottima, ai sistemi pensionistici, al ruolo del capitale nella crescita. Il Premio viene però loro attribuito per lo specifico contributo, che li accomuna, all’analisi di mercati caratterizzati dalla presenza di costi di ricerca, cioè mercati nei quali sia chi domanda sia chi offre beni o servizi è costretto a impiegare risorse materiali, energie e tempo per individuare ciò che corrisponde adeguatamente alla propria disponibilità a partecipare allo scambio. In particolare a Diamond viene attribuito il merito di aver sviluppato l’analisi di base di tali mercati e a Mortensen e Pissarides quello di averla estesa e applicata al mercato del lavoro.



È proprio quest’ultima applicazione che si è dimostrata particolarmente fruttuosa, consentendo di indagare sul fenomeno della disoccupazione. Questo secondo alcuni consente di interpretare l’assegnazione di quest’anno come in qualche misura innescata dall’attualità del dibattito di politica economica in un periodo di perdurante debolezza nei mercati del lavoro su entrambe le sponde dell’Atlantico.

A differenza di quanto avviene, ad esempio, per prodotti industriali a elevata standardizzazione, il mercato del lavoro è caratterizzato da una forte eterogeneità sia dei servizi offerti, che dipende dalle differenze nelle caratteristiche individuali dei lavoratori, sia delle necessità delle imprese, che abbisognano per l’organizzazione dell’attività produttiva di competenze variegate e in costante mutamento, soprattutto in funzione del progresso tecnico.



In questa situazione lavoratori e imprese impiegano dunque tempo ed energie a individuare un partner ideale o almeno soddisfacente ed è dunque possibile che in un dato istante ci siano contemporaneamente posti di lavoro vacanti e lavoratori disoccupati in cerca di lavoro. A differenza di ciò che avviene nell’analisi classica di concorrenza perfetta, nella quale il meccanismo dei prezzi garantisce che in equilibrio domanda e offerta si eguaglino, in un mercato del lavoro caratterizzato dalla presenza di costi di ricerca, anche senza che vi siano imperfezioni nel funzionamento del mercato stesso, possiamo dunque avere contemporaneamente una quota di domanda e di offerta insoddisfatte e, conseguentemente, un numero di disoccupati involontari anche molto elevato.

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La teoria in questione spiega dunque la disoccupazione non con il cattivo funzionamento del mercato, ma con il difficile rapporto tra le specificità personali e un meccanismo di allocazione che è perfetto per lo scambio impersonale.

 

I costi di ricerca spiegano anche l’incidenza della disoccupazione nei periodi di recessione e le difficoltà a ridurla quando l’economia incomincia a dare segni di ripresa, giacché in recessione il numero di posti di lavoro che si perdono è ben maggiore del numero di nuovi posti di lavoro che si riescono a creare e quindi il forte squilibrio tra il numero di posti disponibili e quello dei lavoratori in cerca di lavoro fa lievitare i costi di ricerca. Ancor più grave è la situazione quando alla recessione si affianca uno shock strutturale che modifica profondamente le necessità del sistema delle imprese in termini di competenze e abilità specifiche.

 

La teoria in questione ha poi importanti implicazioni sulla valutazione delle politiche del lavoro, nella misura in cui esse impattano sui costi di ricerca. Politiche attive, che favoriscano la riqualificazione dei lavoratori disoccupati, contrastino il loro sclerotizzarsi in una condizione di estraneità dal mercato del lavoro che li rende sempre più difficilmente occupabili o favoriscano l’incontro, il matching, tra le esigenze delle imprese e le disponibilità dei lavoratori, diminuiscono i costi di ricerca e sono quindi da incoraggiare. Altri strumenti di intervento tesi a sostenere i redditi degli individui che si trovino in condizione di disoccupazione hanno invece effetti ambigui, perché riducono l’incentivo individuale dei lavoratori a partecipare ad attività di ricerca, il che può rendere meno caotico il processo di individuazione del partner a livello aggregato, ma può far diminuire in misura anche decisiva le possibilità del singolo di uscire dalla condizione di disoccupato.

 

Una riflessione conclusiva riguarda il messaggio di fondo che viene da queste analisi per chi si trova a operare nel concreto di situazioni nelle quali la disoccupazione non è un fenomeno astratto, ma assume i connotati di persone in difficoltà. Gli studi di Diamond, Mortensen e Pissarides, pur caratterizzati da estremo rigore metodologico e finezza analitica, non ci restituiscono una rappresentazione del mercato del lavoro algidamente asettica, in cui il realismo è sacrificato all’eleganza formale.

 

Al contrario, l’elevata articolazione e complessità dei loro modelli, ci dice che l’incontro tra le necessità delle imprese e la disponibilità di competenze dei lavoratori è un processo complicato, caratterizzato da molte frizioni, in cui si procede per tentativi ed errori, con difficoltà, sostenendo costi, senza che sia possibile identificare una ricetta per tutti i mali; un processo in cui l’identità della persona non può essere diluita nell’anonimato. Questo ci conforta nella convinzione che per affrontare il problema del disoccupato, come qualunque problema dell’umano, sia necessario “sporcarsi le mani” in un impegno multiforme definito non da un canone astratto, ma da una relazione.

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