I dati sulla disoccupazione pubblicati ieri dall’Ocse confermano le osservazioni che i principali governi mondiali ed europei già da più di un anno stanno condividendo per individuare le politiche di incentivazione della ripresa economica. In particolare i dati aggiornati ad agosto 2010 resi noti ieri sono coerenti con le preoccupazioni e le conseguenti azioni di contrasto che si stanno discutendo ora nel nostro Paese.



Il recente Piano Triennale per il lavoro, quando, in apertura, chiarisce che «la ripresa della economia e del commercio globale si presenta con caratteri di discontinuità, selettività e incerta produzione di nuovi posti di lavoro» e di conseguenza si impegna a focalizzare le più efficaci azioni per liberare il lavoro dai troppi vincoli che lo limitano, sottende le stesse preoccupazioni derivanti dalla lettura dei dati pubblicati dall’Ocse.



La prima osservazione è una conferma di quanto si studia nella teoria economica. La ripresa dalla crisi non coinciderà con un miglioramento del dato occupazionale. O meglio: l’aumento della crisi seguirà il miglioramento dei dati sulla produzione industriale, sull’incremento del Pil e sul commercio estero con ritardo (probabilmente anche più di un anno). I dati che stiamo commentando fotografano l’arresto dell’emoraggia di posti di lavoro osservata (su scala internazionale) fino a luglio 2010.

La statistica di agosto è migliore di quella del mese precedente (un milione di disoccupati in meno) e, di fatto, sembra segnalare il raggiungimento di un punto di stabilità della disoccupazione. Si tratta di considerazioni che andranno confermate nei mesi prossimi, ma diversi addetti ai lavori prevedono ora un periodo di relativa stabilità (o lievissimo miglioramento) del mercato del lavoro, che anticiperà la futura crescita. Si noti che siamo ancora ben lontani ai livelli occupazionali pre-crisi (i disoccupati sono attualmente circa 45,5 milioni, una quindicina di milioni in più rispetto al 2007!).



Questa situazione perdurante stabilità sconnessa ai dati economici che invece si prevede cresceranno molto più velocemente è possibile causa di future tensioni sociali. Semplificando, i disoccupati leggeranno roboanti titoli di giornale sulle rinate performance del mondo industriale e commerciale, ma continueranno a non ricevere offerte di lavoro. D’altra parte, una delle ragioni della ripresa economica sono anche le tante ristrutturazioni industriali (che comportano quasi sempre licenziamenti e prepensionamenti) e la naturale selezione delle imprese più competitive, a scapito della sopravvivenza di quelle più deboli.

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Si tratta di problematiche di primissimo piano per chi si occupa di politiche pubbliche. Non è un caso che il fenomeno della cosiddetta jobless recovery sia al centro delle priorità dei Ministri del lavoro europei. Si tratta, innanzitutto, di ripensare (o, forse, in Italia, inaugurare), le politiche attive del lavoro, rendendole capaci di individuare il bisogno specifico e disincentivando operazioni generaliste e dispersive di fondi. Servono azioni mirate, che partano dal bisogno della persona e non dall’esigenza di pubblicità della politica.

 

La seconda (e connessa) osservazione è circa la tipologia dei lavoratori che saranno maggiormente svantaggiati da questo scenario macroeconomico. Anche l’Italia sta finalmente “puntando forte” sulle politiche di formazione e riqualificazione professionale, guidata dalla felice intuizione che nel mercato del lavoro moderno è anacronistica la sola e disperata difesa del singolo posto di lavoro, quanto sia più strategica la difesa della possibilità del singolo di lavorare. E questa possibilità si facilita innanzitutto garantendo a tutti il diritto alla formazione continua, concreta e coerente con il reale fabbisogno formativo del territorio.

 

Per questo il Ministro Sacconi ha in cantiere la presentazione di un moderno Statuto dei lavori che accanto ai tradizionali diritti inderogabili (diritto alla salute e sicurezza, diritto all’equo compenso e diritti personali) comprenda il moderno diritto all’apprendimento continuo. In questa direzione vanno anche i fondi messi in campo dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali per rendere più funzionale l’indagine Excelsior, trimestralizzandola (servono poco ricerche sul fabbisogno formativo che si basano su dati già vecchi di uno o più anni) e ampliando la base campionaria.

 

Queste misure, però, servono poco per quella fascia di lavoratori molto deboli sul mercato del lavoro perché oramai disoccupati di lungo corso, poco motivati, con bassi livelli di formazione e specializzazioni non più ricercate. Per questi soggetti vanno individuate misure specifiche, politiche attive come strumenti di sostegno al reddito, che contrastino la cronicizzazione della disoccupazione che relegherebbe definitivamente questa fascia debole di popolazione in un sottobosco di persistente disagio.

 

Ultima osservazione. Anche i dati dell’Ocse confermano la tenuta del sistema Italia. Il tasso di disoccupazione italiano continua a essere di due punti percentuali minori rispetto a quello dell’area Euro (8,2% contro 10,1%). Il dato italiano è decisamente migliore (e lo è stato durante tutta la crisi) di quello spagnolo (un tragico 20,5%, confermato dal recente sciopero generale), quello portoghese (10,7%), quello francese (nonostante l’intervento dello Stato ancora stabile al 10,1%) e addirittura quello finlandese (8,5%). Ma anche il dato americano è più alto (9,6%, tra l’altro in crescita rispetto al mese precedente, a fronte della diminuzione di quello italiano), così come quello medio dell’Ocse (8,5%).

 

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Insomma, una lettura comparata del mercato del lavoro (per quanto attiene alla sola disoccupazione quantomeno) stempera i frettolosi giudizi politici che spesso si leggono e sentono nel dibattito nostrano. Le politiche del lavoro di contrasto alla crisi hanno retto bene. Il sistema degli ammortizzatori sociali, che pure è tuttora guardato con sospetto dall’intellighenzia accademica illuminata, privilegiando la difesa del posto di lavoro alla difesa del solo reddito del singolo in caso di disoccupazione, ha reso possibile, pur nelle difficoltà note a tutti e tutt’altro che irrilevanti, il contrasto al crollo dell’occupazione.

 

L’errore ora sarebbe quello di accontentarsi di essere, per una volta, tra i Paesi virtuosi, limitandosi a quanto già fatto. La ripresa economica porta con sé nuove e diverse criticità per le politiche del lavoro, che devono interrogare non solo il decisore pubblico, ma anche tutti i soggetti coinvolti, i sindacati e le associazioni datoriali così come il singolo lavoratore.

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